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Mente pura e carni sode / Le sciatrici del Duce

Lo stipendio di mille lire al mese, mitizzato da una canzone-simbolo, era ancora di là da venire mentre le camicie nere s’impadronivano negli anni Trenta dei centri di potere. La maggior parte delle donne erano affaccendate a rivoltare vecchi cappotti di famiglia, e poche erano quelle che potevano dedicarsi ai riti dell’alpinismo e dello sci. Mussolini prediligeva in ogni modo le “madri dalle carni sode”, definizione oggi esecrabile che all’epoca entrò a far parte del bagaglio ideologico delle camicie nere come si legge nel libro “Scarpone e moschetto” pubblicato all’inizio di questo millennio dal Centro Documentazione Alpina in una collana di tascabili diretta da Mirella Tenderini.

E’ noto che Mussolini i figli alla patria contribuiva a produrli in esercitazioni di virilità, occasionali ma anche più durature e con prole. Sullo sfondo delle montagne si aggiravano in ogni modo donne eccezionali. Come Mary Varale, la famosa scalatrice protagonista, come si legge nelle pagine de Lo Sport Fascista, di una traversata notturna delle Torri del Vaiolet, compiuta con Marino Stenico nel ’28. L’articolo era firmato dal marito giornalista Guido Tonella. Ed eccezionale fu Ninì Pietrasanta, altra campionessa del sesto grado che nel ’34 con il suo libro Pellegrina delle Alpi schiuse nuovi orizzonti all’universo femminile di quei tempi.  “Una gentile fanciulla”, così venne descritta in una recensione, “difende la propria passione nei confronti di un’opposta tendenza che vorrebbe vedere la donna vera solo sotto l’aspetto di un fiorellino ovattato, privo di energie e di colore, e senza un carattere e una propria personalità. E lei sa di tendere contro chi osa scandalizzarsi di un bel corpicino rudemente vestito, di due piedini calzati da grossi ferrati scarponi o di un insieme di vestimenta che possono contrastare con la moda corrente”. 

Ninì non si era mai lasciata incantare dai galanti riferimenti a quei fiorellini di campo e, tostissima, scalò con il compagno Gabriele Boccalatte poi diventato suo marito la temibile parete sud dell’Aiguille Noire di Peuteret. L’anonimo articolista colse l’occasione per lodare “la vittoria del buon senso che ammette che la donna possa, con la giusta dosatura delle proprie facoltà fisiche, trovare il modo di irrobustirsi o di elevarsi fisicamente e spiritualmente, portando l’impeccabile sua grazia e la raffinata sua gentilezza anche là nel regno delle rupi vertiginose e dei gioielli eterni dove l’uomo riconosce la natura.”

Nomi femminili costellarono sotto il fascismo le cronache alpinistiche. Non molti e non di frequente però. Lo spigolo nord del Pizzo Badile, nelle Alpi Retiche registrò la prima femminile e si scoprì che questa via, che sarà classificata di quarto grado, rappresentava una vera ossessione in una tranquilla famiglia milanese di appassionati. “Il 25 agosto scorso”, si legge, “la sig.na Carla Calegari della Sezione di Milano del CAI con la guida Fiorelli Virgilio e Guglielmo Fiorelli, portatore, ha effettuato la prima italiana dello spigolo nord del Badile. La Calegari è sorella di Angelo e Romano Calegari che nel 1931, col dott. Gaetano Scotti, effettuavano per prima l’intera esplorazione in salita e in discesa dell1immane spigolo nord. Tempo impiegato: 8 ore dall’attacco alla vetta, con addiaccio a Sass Furà”.

Un universo tutto al maschile

Parole interpretate con una certa durezza da un bigotto e anonimo recensore sul quotidiano cattolico L’Italia, che scrisse: “Abbiamo dell’alpinismo una grande stima, come di uno sport completo per il quale non bastano il cuore sano e i garretti solidi, ma occorre anche una mente pura. Purtroppo invece il Decalogo della donna alpinista ha la base non diciamo di creta, ma di fango”. 

Ma una vera mosca bianca restava l’impavida Ninì, nell’universo tutto al maschile dell’alpinismo di quei tempi. Per quanto riguarda la conoscenza della verità e i riconoscimenti dei propri diritti, le donne dovevano delegare tutto alle asserzioni e ai pregiudizi maschili espressi, con galanteria, su riviste e giornali. Nell’aprile ’40 Lo Scarpone pubblicò un Decalogo della donna alpinista, una specie di disimpegno scritto dal professor Giovanni De Simoni, dirigente del Cai e fiduciario milanese del Guf, che al punto dieci raccomandava alle giovani camerate: “Non abbiate falsi pudori. Sopra i 3000 metri ogni azione è santa”. 

“Nella donna non esistono falsi pudori”, commentò il censore, “il pudore è falso unicamente per gli uomini viziosi. Chi è gentiluomo al di sotto dei 3000 metri lo è anche al di sopra e viceversa. E la santità, alpinismo delle anime, è cosa molto difficile, più ardua delle ascensioni di sesto grado, ma si può perdere anche a 4000 metri con un solo pensiero, un breve gesto, la pretesa di vincere un falso pudore. Il prof. De Simoni farà bene a capovolgere il suo comandamento se vorrà veramente collaborare all’elevazione spirituale delle generazioni che sorgono, le quali hanno bisogno di sapere e sentire che anche sopra i 3000 metri c’è sempre Iddio.” 

Parole, quelle del quotidiano della Curia, che fecero andare fuori dai gangheri De Simoni, il quale replicò senza alcuna soggezione: “Non ho nulla da ritrattare o da capovolgere, neppure nei riguardi di un breve decimo articolo di un  secondarissimo decalogo. Se Veliere (così si firma l’anonimo censore, Ndr) conoscesse l’alpinismo non soltanto per sentito dire, non era possibile fraintendere la mia affermazione: sopra i 3000 metri ogni azione è santa. In quanto alla morale non mi sento autorizzato a sputar giudizi sulle persone (giudizi sempre assai ardui), ma mi sembra che il primo attentato lo commette chi vuol mettere malizia dove non c’è; chi dà pubblicità a proprie arbitrarie interpretazioni immorali di scritti altrui; chi infine insulta il prossimo parlando di fango la dove – probabilmente – il fango era soltanto nell’occhio del corsivista Veliere.”

In un’ Italia provinciale, “un’Italia che si accontenta, che vive con poco, che non fa confronti, che ha un tenore di vita di basso profilo”, come la descrive Silvio Bertoldi, le donne sono sempre nell’occhio del mirino. Così allo Scarpone tocca anche difendere le sciatrici criticate dalla Curia di Milano per il loro abbigliamento. Sono davvero un problema quei calzoni a sbuffo, quelle vezzose cuffiette, quando le ragazze vanno a messa la domenica prima d’imbarcarsi sugli affollati torpedoni della neve in partenza dalla piazzetta Reale? 

L’intervento della Curia

Con tono bonario, in un angolino della terza pagina, un articolo intitolato L’abito e il monaco, giudica “eccessivo se non addirittura esorbitante” l’intervento della Curia che invita le sciatrici a indossare un cappotto sopra la tenuta da sci e a lasciare in un angolo del sacro tempio durante la funzione religiosa quei due arnesi profani”. E’ probabile però che nell’ottica della curia dietro quei due arnesi profani si nascondano intollerabili paradisi di voluttà. 

Le cronache dell’epoca riferivano che nel doposci, nei fumoir degli alberghi, queste giovincelle si facessero le labbra con la matita rossa bevendo gin fizz e champagne e frappé. Ma questo genere di sciatrice non affolla certo le corriere domenicali, al massimo accetta di salire sul trenino azzurro che va da Calalzo a Cortina, il più lussuoso d’Europa, per poi raggiungere in slitta il Cristallo, il Miramonti e gli altri alberghi dei principi, dei gerarchi degli industriali.

Particolare curioso. Dopo essersi fatto paladino delle sciatrici, Lo Scarpone esulta alla notizia che la nuova rivista Mammina lancia un referendum a premi sul tema “Che cosa pensano dello sport le mamme italiane?”. In palio ci sono modernissimi apparecchi fotografici, per cogliere “in movimento i propri figlioli nella gioia dello sport preferito”. Un’occasione da non perdere per tante “buone madri dalle carni sode”, secondo la definizione coniata da Mussolini che così voleva le italiane, artefici del miglioramento della razza. 

La riproduzione della razza

La donna fascista doveva, “per superiori disposizioni”, presentarsi in tutta la sua prestanza a patto però di non nuocere alla riproduzione della razza. “Se si diminuisce, signori, non si fa l’impero, si diventa una colonia”, diceva Mussolini aprendo nel 1927 la campagna demografica che si proponeva l’aumento della popolazione a 60 milioni entro la metà del secolo. Altro che salire alle alte quote sfidando baratri e tempeste! Era più che sufficiente un po’ di ginnastica affinché le “madri dalle carni sode” s’irrobustissero e fossero pronte a dare figli alla Patria. Un ostruzionismo tutt’altro che sordo venne riservato, alle reprobe che troppo vogliono osare, sulla rivista Montagna, il mensile del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, che apre il numero speciale del gennaio ‘37, XV dell’Era Fascista, tutto dedicato alla montagna “in rosa”, con un editoriale che fin dal titolo denuncia la matrice cattolica: “Si devono condurre le donne in montagna?”. 

L’articolista, un certo abate Henry, a una prima sibillina risposta, “certamente!”, fece seguire alcuni fondamentali distinguo che la dicono lunga sul maschilismo imperante. “Ciò che fa bene al corpo di un uomo fa bene certamente anche al corpo di una donna. Soltanto che non si devono condurre le signore toppo in alto, non al di sopra dei 2500 o 3000 metri perlomeno. Mi sono chiesto più volte: ma che cosa sente la donna in montagna? Quale impulso riceve? Le donne hanno in montagna un cinguettio inspiegabile nell’uomo. Ma qual’è allora la mentalità delle donne in montagna? Non lo so. Ciò che vanno a cogliere in montagna sono i fiori, ma le signore sono pur esse dei fiori. Ebbene: lasciamo i fiori in mezzo ai fiori e non portiamoli più in alto.”

Da “Scarpone e moschetto” di Roberto e Matteo Serafin, Centro Documentazione Alpina, 2004

One thought on “Mente pura e carni sode / Le sciatrici del Duce

  • Mio papà Gabriele fu insignito da Mussolini della medaglia d’oro al merito sportivo, e mia mamma Ninì Pietrasanta, della medaglia d’argento. Per quanto ne so, non si occuparono mai attivamente di politica, ma erano liberali ed antifascisti per convinzione e carattere. Loro fraterno amico era Poldo Gasparotto, attivista antifascista, internato a Fossoli e poi ucciso nel 1944 dai nazifascisti.

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