Aspromonte, terra di poeti e sognatori / Realtà e prospettive
L’Aspromonte, terra di poeti e sognatori, diventerà terra di costruttori di civiltà, partendo dalle tante risorse e dal faticoso passato? Sulla storia e le prospettive di questo territorio offre preziosi approfondimenti Antonino Falcomatà, socio del Club Alpino Italiano, autore di “Aspromonte vetta d’Europa” (Jason editore, 1997, 120 pagine), rifacendosi anche ad altre opere di autori illustri dedicate a questo meraviglioso lembo della nostra Penisola.

Sono ormai tante le pregevoli pubblicazioni che parlano della montagna reggina per antonomasia, la cui storia è iniziata oltre mezzo miliardo di anni fa, prima ancora che Pangea si separasse e nascesse Tetide. Uno dei primi progetti editoriali, che hanno formato gli studenti perché osservassero e conoscessero il territorio dove vivevano e operavano e i tanti escursionisti che cominciavano a percorrere i sentieri e le strade aspromontane, porta il titolo “Aspromonte Vetta d’Europa”. In questo testo l’acrocoro è inquadrato sotto gli aspetti geografico ed orografico, geologico, climatico, idrologico, vegetazionale, faunistico ed economico. Sono proposte osservazioni riguardanti il dissesto idrogeologico e la botanica forestale. Sono indicati, inoltre, alcuni itinerari, parte dei quali da percorrere a piedi ed altri anche in automobile, che conducono in luoghi significativi. Le notizie riportate sono state tratte in parte da studi effettuati da appassionati locali ed in parte sono frutto della esperienza di scout cattolico prima, di insegnante, di libero professionista e di socio del Club Alpino Italiano, del quale, all’epoca della stesura, lo scrittore era Componente del Comitato scientifico centrale.
Sulle tracce della vita bizantina
Lo studio, la ricerca e la divulgazione delle tracce della vita bizantina, a cura del professor Domenico Minuto rappresentano una pietra miliare del recente percorso conoscitivo della montagna che, ai primi naviganti che approdarono lungo le coste ioniche, appariva avvolta di luce e con le sue vette più importanti ricoperte dal bianco della neve. Ha preso il nome di Aspromonte per questa immagine pittorica e non certo per l’asprezza del territorio nel quale i migranti greci si inoltrarono e s’insediarono. Uno dei luoghi più suggestivi della cultura bizantina, emerso da questi ed altri studi, facilmente raggiungibile sia da San Luca che da Natile vecchio, è denominato “Rocche di San Pietro”, dove, sulla parte sommitale, è possibile ancora osservare i giacigli scavati nella roccia da monaci basiliani venuti dall’oriente.
Precedentemente, anche nei secoli passati, tanti viaggiatori, che lo hanno visitato come il tedesco Francesco Leopold von Stolberg (1792) ed altri, hanno pubblicato testi divulgativi, corredati da pregevoli immagini, finalizzati a farlo conoscere.
Le meraviglie di Bova
Il libro che, oggi, suscita molto interesse è “Diario di un viaggio a piedi” del viaggiatore inglese Edward Lear. L’autore percorse l’Aspromonte con una guida locale e un asinello utilizzato per il trasporto dei bagagli, lungo gli principali itinerari che collegavano i maggiori centri arroccati in collina e in montagna. Attualmente, sulle sue “tracce”, attraverso “il sentiero dell’inglese” che da Pentadattilo arriva a Palizzi passando per San Lorenzo, Amendolea, Gallicianò, Montebello Ionico, Roghudi, Bova e Staiti, parecchi escursionisti entrano in contatto con l’area “grecanica” il cui paese meglio conservato è Bova (Chòra tu Vùa).
Il borgo non è solo un centro abitato fondato, secondo una leggenda, dalla regina greca Oichista; un’antica sede che ospitava il vescovo, l’ospedale, la pretura, il carcere; un tesoro di storia, arte e architettura Bizantina, Normanna e medioevale; il dialetto greco-calabro, i ruderi del Castello Normanno (X-XI sec.); la Chiesa di San Leo (XVII sec.) con statua marmorea del Santo del 1582; la Cattedrale di Santa Maria Isodia (del XII sec. e sede della diocesi a partire dal V sec.); la Chiesa del Carmine ; il Museo del folklore e delle tradizioni popolari; la Chiesa dell’Immacolata; il Museo Civico di Paleontologia e Scienze Naturali dell’Aspromonte; la Chiesa di Santa Caterina, con statua marmorea della Madonna col Bambino (1590) proveniente dalla chiesa dello Spirito Santo; le figure antropomorfe femminili ( Persefoni o Pupazze); il museo all’aperto “Sentiero della Civiltà Contadina”; la Chiesa dello Spirito Santo; il centro di documentazione di Cultura Grecanica; la Chiesa di San Rocco; la stopitta o pitta veloce; la grotta degli innamorati; la torre normanna Parcopia; la Musulupa; la lingua grecanica; la porta del Parco dell’Aspromonte; la cooperativa San Leo; il Museo della lingua greco-calabra “Gerhard Rohlfs”; il Palazzo dei Nesci Sant’Agata; la locomotiva Ansaldo Breda; i sentieri naturalistici di breve e lunga percorrenza come il “Bova – Delianuova” e quello “dell’inglese”; i ristoranti e le botteghe tipiche; i panorami sulla costa ionica e sull’Aspromonte; il Paleariza; l’organetto e il tamburello; la banda musicale ma è anche un luogo abitato, all’interno del Parco nazionale dell’Aspromonte, sospeso tra il cielo e il mare ionio, con l’Aspromonte alle spalle e l’Etna di fronte.
Accoglienza e solidarietà
Quando si pensa a quello che era l’Aspromonte il pensiero corre ad un altro centro, più interno e abbandonato: Africo. Talvolta per narrare storie e piacevoli visioni di quei luoghi in film e documentari, si è rilevata, accanto all’ottima capacità di descriverli, una lacunosa conoscenza di fatti divulgati. A titolo di esempio ci si sofferma sulla disastrosa alluvione dell’ottobre 1951 che forzò gli abitanti del comune di Africo ad abbandonare le proprie abitazioni prive di acqua e di corrente elettrica, sorte comune ad altri centri interni, a trasferirsi altrove. Da questo contesto è pervenuta per caso, una bella storia di accoglienza e solidarietà che qualifica le gesta di chi le ha fatte e le ha catalogate in quegli avvenimenti meno conosciuti ma non certo meno importanti.
Si racconta che poco meno di 200 fanciulli profughi aspromontani siano stati inviati dalla Croce Rossa, in due scaglioni, a Suna, sul lago Maggiore, nella colonia Ettore Motta, estesa oltre 100.000 metri quadrati e messa a disposizione dalla società Edison, a seguito di quello spaventoso nubifragio. Era successo che tante fiumare avevano rotto gli argini, impetuose acque avevano distrutto pascoli e travolto ponti, scardinato linee elettriche, telefoniche e telegrafiche e molte famiglie, sorprese nel sonno, sono state sepolte sotto le loro case dalla furia delle acque che avevano spazzato anche interi villaggi. A Suna i bimbi hanno frequentato la scuola, studiato l’italiano e hanno ricevuto libri e corredi scolastici. Inizialmente avevano avuto difficoltà con le istitutrici che per capirli hanno dovuto studiare il calabrese. Hanno avuto modo, pure, di conoscere il panettone e il risotto. Uno di loro, si racconta, che aveva difficoltà di deambulazione, è stato operato ai piedi presso l’ospedale “Principessa Iolanda” e aveva cominciato, seppure a fatica, a camminare.
Uno statista tra la “perduta gente”
Diversamente da quanto spesso viene narrato, l’Aspromonte non era totalmente trascurato, se è vero come è vero che, negli anni precedenti all’evento del 1951, quando è stato interessato da quello spaventoso nubifragio descritto sopra, svolse un’opera meritoria lo statista piemontese Umberto Zanotti Bianco che, essendo fortemente attaccato a quella “perduta gente”, coinvolse l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia. Furono, così, realizzate diverse opere, tra le quali l’edificio scolastico. Nella narrazione si ignora, anche, la presenza, sempre prima dell’alluvione, di tanti operatori sociali che hanno lavorato, anche loro, con grandi difficoltà come le maestre e i medici. Una persona nota, che nei primi anni del novecento insegnava nel comune aspromontano, è stata seguita a distanza di anni anche dal figlio che era diventato il medico del paese. Non mancavano neppure i carabinieri, l’ostetrica, l’operatore telegrafico, il curato ed altri. Nel 1815, è stato deciso di unire, nell’unico comune di Africo, il paese di Casalinuovo, che gravitava soprattutto su Bruzzano e che aveva come patrono San Salvatore, ed il paese di Africo, che gravitava soprattutto su Bova e che aveva come patrono San Leo. Questo imposto provvedimento, non fece cambiare, a queste due minoranze linguistiche, molte delle loro originali abitudini. Cosicché si era creata questa singolare situazione di avere, nello stesso comune, due parlate. Il fenomeno è apparso ancora più evidente dopo l’esodo forzato, a seguito dell’alluvione del 1951 degli abitanti, nel nuovo territorio localizzato lungo la costa ionica, nel comune di Bianco, esattamente al “Lacco della quercia”, una zona compresa tra Capo Bruzzano e la fiumara La Verde. Nel nuovo sito tutte le famiglie vivono senza alcuna distinzione per l’originale appartenenza territoriale di Casalinuovo e di Africo, e, anche le nuove generazioni, parlano il dialetto di provenienza. Non è l’unico caso, anche a Delianova, a titolo di esempio, si ha la doppia parlata.
Non si può non associare Africo ed altri centri ormai abbandonati dell’Aspromonte a Umberto Zanotti Bianco. Questo statista piemontese giunto in riva allo stretto di Messina, all’indomani del terremoto che sconvolse le città di Messina e di Reggio Calabria, è conosciuto ai più perché, realizzò, con l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, tra il 1910 ed il 1928, centinaia di asili, di scuole, di corsi serali, biblioteche popolari, ambulatori antimalarici e colonie montane nei paesi più poveri e più sperduti dell’Aspromonte. In questo contesto di “pensiero e azione”, oltre un secolo fa, nel 1912, mettendo in risalto un’Italia dimenticata da uno Stato colpevolmente assente, così scriveva: “Invece di profondere milioni a creare nuove e sempre pestifere clientele politiche (…) lo Stato faccia ciò che gli individui isolati non sono stati finora capaci di fare: renda giustizia a tutti ed instauri il regno della sicurezza personale per chi vuole lavorare, (…) si trascurano in modo indegno e vergognoso quelle che furono sempre dello Stato le funzioni essenziali: tenere a segno i malviventi ed impartire giustizia rigida ed imparziale a tutti”.
L’opera di Corrado Alvaro
Emblematico è rimasto lo scritto di Zanotti Bianco “Tra la perduta gente” del 1928 sulle condizioni di arretratezza e abbandono del piccolo villaggio calabrese di Africo. Luigi Einaudi, nel 1952 lo nominò senatore a vita per gli altissimi meriti conseguiti nel corso della sua lunga attività sempre “nobilmente ispirata alle esigenze dell’elevazione umana e sociale”. Morì a Roma nel 1963, lasciando debiti, ma anche una notevole produzione parlamentare finalizzata soprattutto alla difesa e alla valorizzazione del patrimonio artistico e ambientale e ai problemi della scuola. Anche a Roma morì lo scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano Corrado Alvaro la cui vita, come quella di altri illustri poco conosciuti, attesta che nascere in questi luoghi disagiati non esclude la possibilità di affermazione. Conosciuto soprattutto per il testo “Gente in Aspromonte” afferma che la disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. Ritiene che “soltanto chi è morto ha finito. Noialtri abbiamo la pelle dura da affilarci il rasoio” e che al suo paese “la piccola borghesia considera una grande prova di abilità arrivare a ingraziarsi con tutti i mezzi, anche i più bassi, chi comanda. La furberia al posto di ogni altra qualità umana. Chi non vi riesce è un imbecille, e chi non vi si adatta, un pazzo”.
Anche Saverio Strati, che per i suoi speciali meriti artistici riconosciuti da tutti, è stato beneficiato della legge Bacchelli, concessi dal consiglio dei ministri del 17 dicembre 2009, è aspromontano. Dopo avere fatto il muratore, lasciò Sant’Agata del Bianco, per studiare, prima a Catanzaro, poi alla facoltà di lettere di Messina, per trasferirsi nel 1953 a Firenze dove è morto nel 2014, avendo soggiornato pure in Svizzera dal 1958 al 1964. Nel libro “Il selvaggio di Santa Venere” ha scritto: “varrebbe la pena che i poveri decidessero a non fare figli. Le guerre chi le combatterebbe più?” e “Niente è cambiato per i poveri, vent’anni dopo la guerra! A comandare sono i padroni, da sempre: prima Giolitti, poi i fascisti, ora i democristiani che governano in nome di Cristo che offendono in mille maniere”.
Il destino delle scuole di montagna
La distribuzione delle popolazioni sul territorio è la risultante di una successione di modificazioni e di componenti che hanno influenzato, da sempre, il modo di vivere e le caratteristiche degli abitanti come l’atteggiamento di conformare il pensiero a quello dei potenti. Questa è una delle limitazioni più evidenti che impedisce il rapido e significativo miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Queste, infatti, trovano più facile adulare e sottomettersi piuttosto che affrontare e superare i traumi e le difficoltà tramandate di generazione in generazione. D’altra parte, al mondo, nulla è più faticoso della sincerità e più agevole dell’adulazione. Molti insediamenti erano sorti, lungo l’entroterra, per garantire maggiore igiene e salubrità di quei luoghi rispetto ad altre aree dove erano diffuse alcune malattie come la malaria, ma anche per consentire una più facile tutela e difesa degli abitanti dagli attacchi che venivano dal mare e pure dai briganti. La presenza di contratti con i quali i contadini venivano sottopagati, insieme a condizioni di grande arretratezza nel campo agricolo e ad altri fattori come i mercati, l’improduttività delle colture, migliori condizioni di reddito e di vita altrove, spinsero ad abbandonare questi ed altri luoghi e a modificare, conseguentemente, l’andamento demografico e, più specificatamente, una consistente diminuzione di capitale umano. Ogni anno, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico, si rinnova la problematica relativa alla chiusura delle scuole di montagna, culle della conoscenza.
Un esodo da frenare
Questa ricorrente annuale informazione, insieme ai presunti o reali cambiamenti climatici, con l’Unione Europea che spinge a far rallentare la corsa dei prezzi energetici, sarà sufficiente per frenare il probabile esodo, delle popolazioni che vivono in queste e altre aree interne del mondo, verso le calde aree rivierasche? L’esperienza mi ha insegnato che c’è una evidente e netta separazione fra la facile attività del dire e la triste realtà del fare in campo politico e legislativo, e che i centri rivieraschi, come non sono stati pronti ad accogliere le popolazioni delle aree interne in passato, non lo sono attualmente e non lo saranno anche in futuro. Si spera che, con questa emergenza energetica che aggrava i noti problemi atavici che attanagliano le aree collinari e montane, spesso e volentieri disattesi, non si metterà una pietra tombale sulla permanenza dell’uomo nelle terre alte. Una seria e mirata programmazione, a media e lunga scadenza, che consenta di passare ai fatti, diventa un imperativo categorico per evitare che, con cadenza annuale, all’inizio dell’anno scolastico, non ritorni il noto ritornello che fa: “si deve fare qualcosa per scongiurare la chiusura delle scuole di montagna”.
L’11 dicembre di ogni anno si festeggia “La giornata internazionale della montagna”, istituita dalle Nazioni unite nel 2003 per riflettere (e per far riflettere) sull’importanza delle montagne per la vita, ma anche per sensibilizzare l’opinione pubblica sullo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente. Si augura che l’occasione sia propizia per raccontare una nuova storia nella quale l’Aspromonte e le sue popolazioni siano protagonisti piacevoli e positivi. Si lascia, infine, alla cultura caratterizzata dalla troppa retorica, dalla facilità all’adulazione e alla sottomissione, e agli scopritori di misteri, la narrazione di cosa sia stato l’Aspromonte negli anni 70/80.
Antonino Falcomatà
Reggio Calabria li 21/03/2023