Abetone, la leggenda continua
“E’ un libro di ricette e racconti insolito…ma l’incipit lo trovo esilarante. Te lo mando per WhatsApp dalla bufera dell’Abetone”. Costretta per il maltempo a restarsene chiusa in una villa affittata nell’Appennino pistoiese, Soledad non ha resistito alla curiosità. Frugare in cassapanche e vecchi armadi è la sua passione. Fortuna ha voluto che l’insolito libro si sia fatto trovare in fretta. Tema facile facile quello sviluppato nelle pagine ingiallite: quando all’Abetone si andava per sciare. L’epoca? Approssimativamente gli anni del boom economico, quando la neve abbondava e pure le palanche. Quando tra le faggete imbiancate di neve ancora zigzagava l’irruento Zeno Colò, trionfatore nella libera ad Aspen nel Colorado. Sciare esigeva una buona dose di coraggio su piste di neve ghiacciata a malapena battuta e niente garantiva che gli attacchi degli sci all’occorrenza si aprissero com’era loro dovere evitando allo sciatore di finire in qualche reparto di ortopedia.
Doveva cavarsela bene su quelle piste arrangiate alla bell’e meglio anche la riottosa autrice del libro. Che amasse l’Abetone quella piccina trascinata in apparenza di malavoglia non si direbbe dagli improperi che escono dalla sua penna. Ma poi si scopre che all’Abetone riservava una passione che sconfinava con un grande amore. Si apprende anche che veniva caricata con suo fratello “a viva forza” in macchina, tutti i sabati del mondo, da un babbo dolce ma irremovibile e tanto convinto che i bambini dovevano imparare a praticare uno sport così “simpatico e salutare” come lo sci.
“Dopo infiniti chilometri di curve a tutto tondo”, racconta la ragazza, “scivolando sempre più in basso nei sedili posteriori della macchina (non esistevano ancora evidentemente le cinture di sicurezza, NdR) con lo stomaco sconvolto e il colorito cadaverico, venivamo scaricati, puntuali come la morte, tra le braccia amorose del nostro maestro di sci nonché tra quelle gelide e infide della montagna pistoiese. Dal calduccio un po’ malsano dell’automobile al freddo cattivo ma corroborante, come diceva mio padre, della seggiovia tragicamente esposta alle intemperie e da lì, di brutto, sulle piste dure, zeppe di gobbe e fitte di alberi che era tanto se si arrivava in fondo senza precipitare a mo’ di valanga. I nostri genitori, invece, ci aspettavano trepidanti nel tepore di qualche rifugio, davanti a interminabili grappini o tazze stracolme di cioccolato con panna”.
“Ci sono voluti anni”, conclude l’autrice misteriosa del libro, “per apprezzare la gioia profonda delle piste infinitamente più larghe e lisce che hanno permesso di paragonare l’Abetone alle più belle località sciistiche delle Alpi. Comunque il mio primo e, per tanto tempo, unico Abetone, è stato quello: inverno, neve, sci, un freddo bestia e una fatica inumana per imparare a reggermi su quegli assurdi ‘cosi’ di legno. Che esistesse un Abetone ‘estivo’ non lo immaginavo nemmeno. Per me era un posto che smetteva di esistere a Pasqua e rinasceva a gennaio. L’estate era fatta di mare, bruciarsi per bene sugli scogli, nuotare felici nei mari azzurri (sempre meno), confondersi in mezzo a folle sudaticce e festanti, sotto i colori di un sole che picchia, laggiù, senza tregua né pietà…”. Ma perché escludere che anche nella bella stagione l’Abetone possa offrire quelle gioie profonde a cui aspira la nostra misteriosa autrice?
A proposito. Il leggendario Abetone come stazione sciistica esiste dal 1930. È una delle più antiche d’Italia.