Montagne del marmo / Le vite vendute dei cavatori
Del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871 -1919), precursore della poesia ligure del Novecento che va da Camillo Sbarbaro a Eugenio Montale, amico del noto pittore viareggino Lorenzo Viani, pubblichiamo una preziosa testimonianza (1894) sulla vita dei cavatori sulle montagne del marmo intitolata “Dai paesi dell’anarchia”.
Io sono stato sui monti delle cave sotto il folgorio del sole, che acceca riverberando sul bianco dei marmi. Tra il turbinio della polvere mossa dal vento, tra gli schianti delle mine, tanti uomini salgono dalle verdi campagne lunigiane a guadagnare di che sostentare la famiglia, la famiglia che vive quietamente in un bianco casolare laggiù perduto tra macchie di pioppi e filari di viti. Io sono stato lassù a Fantiscritti e a Ravaccione, le supreme cave e dinanzi all’immensità della natura che si estrinseca in una strana forma di paesaggio roccioso, dalle tinte ciclopiche dinanzi alla mostruosità convulsa dei monti e all’orridezza dei ravaneti, all’audacia dei picchi svettanti nell’azzurro, o perdendosi in una bianca nube velata che acceca col suo riverbero, ho detto: gli uomini qui lavorano, ben si guadagnano il pane.
Tanto il piede affonda nel ravaneto, tanto sulla testa è sospeso il masso che continuamente rotola, tanto la vita è fragile se attaccata ad una fune appesa ad un semplice piuolo che colui che qui lavora dev’essere un titano, od almeno lasciatemelo dire, o borghesia, un eroe, sì, un vecchio eroe! Egli non aspetta né monumenti, né ricordo glorioso in pagine di storia; egli lavora per la famiglia che cresce modestamente nella natia campagna e se un giorno, come spesso succede, la canapa della lizza si romperà, e il masso che scende dalle cave ai piazzali della marmifera, devii, se la polvere bianca di un giorno di vento lo acciechi e un blocco di marmo slanciato da una mina lo percuota, egli non avrà, se ferito, che primo letto una scala, quattro pezzi di pino incrociati, e se morto, appena un sacco d’onde si asportò già polveri piriche, e mine, fragile cassa alle sfracellate membra.

Nei cimiteri di Torano e di Miseglia, son comuni queste sepolture d’ignoti e la famiglia ancora li attende al piano verde col sogno nell’anima di rivederli alla sera come sul dilucolo dell’ultima mattina, quando dopo aver salutato la madre, o baciato la sposa, essi inconsci del loro fato s’avviarono colà donde mai più ritorneranno.
Chi non ha veduto una cava, chi non ha osato salirci non può davvero farsene un’idea. E pensare che nelle vallate di Canal Piccinino e di Canal Bianco, esse si contano a centinaia, una dietro l’altra, una sovra l’altra. Sul diffuso grigio delle montagne arrugginite esse paiono enormi ferite candide. Cigli di rupi irte, scannellature di righe s’aggrottano sopra ed hanno un color di sangue sbiadito colà dove la ruggine manca nel bianco. E cosí via via, su su finché non si giunga al vertice supremo inaccessibile, irta punta che la nebbia circonda quasi fosse il Nume del luogo.
Sul piano della cava s’ammucchiano i massi. Là lavorano gli squadratori, gli scalpellini, ma su per la parete bianca, sulle creste delle rocce, legati ad una fune, il piede su una tavola tremante, i cavatori scavano le mine. Talora su un gruppo altissimo, è necessario fare in breve una profonda mina; allora si uniscono molti pali di ferro, si costruisce una specie d’impalcatura a vari piani con rozzi pini od elci, là sopra sale qualche dozzina d’uomini ed allora comincia, lento e monotono il lavoro; ogni colpo della ferrea stanga nel calcare è accompagnato da un triste e cadenzato: Oh! Oh! Io ho ascoltato lungamente quel richiamo onde tutti i lavoranti, in un sol momento, abbiano intente le forze ad un medesimo atto. È un accordo lamentoso, che gli echi rimandano, e affievolendolo rendono qualche volta più dolente e fantastico, onde l’anima commossa pensa: dunque anche qui vivono gli uomini? Dunque anche qui soffrono? In terra non è luogo dunque ove non sia dolore?
Sotto il piazzale poi delle cave scende rovinosamente il cumulo dei detriti di marmo che l’escavazione continuamente aumenta. Scende colmando insenature, sfaldandosi per i versanti dei balzi, ammucchiandosi in fondo alla vallata o contro un ciglio enorme di rocce a mezzo monte. È il ravaneto. In esso sono tracciate le vie delle lizze. Per queste vie dal piano delle cave si fanno scendere i massi già squadrati ai carri enormi tirati da bovi che li attendono a certi luoghi meno ardui, o alle stazioni della ferrovia marmifera. Enormi piuoli sono piantati per queste vie che hanno sempre il cinquanta o il sessanta per cento di discesa, e servono a fissarvi le canape della lizza – specie di slitta di legno, su cui i marmi van posti – onde scenda lentamente, senza mine.
Diversi uomini, detti lizzatori, posti sul davanti, dispongono sotto il blocco in discesa, dei travicelli di legno detti parati, che ne attutiscono lo sfregamento contro la scabra via e ne agevolano il viaggio. Quanto pericolo! La canape spesse volte si spezza e il masso enorme – se gli uomini non son pronti a fuggire – rotola loro addosso e si vendica, uccidendoli: uccidendo essi piccoletti, che con piccoletti mezzi tentarono di portarlo via dal suo santo luogo natale.
Tutti i giornali d’Italia – rara avis un’eccezione – hanno detto che quei cavatori sono uomini rozzi, ubriaconi. E la calunnia fu ribadita anche da una parte di coloro che dovevano assumerne la difesa. Di ciò fu un eroe, si sa bene, anche qualche pseudo socialista, il quale credendo che fosse anche poco, intinse un suo certo pennelletto in vasi di negro fumo, e di rosso scarlatto ne pennelleggiò, con l’entusiasmo di un salvatore della patria, tutta quanta la Lunigiana. Ahimè non tutti i pittori impressionisti trionfano: gli sgorbi rimangono e per la consumazione dei secoli.
È vero, quegli uomini, quei cavatori che oggi s’arrampicano per le rocce, dove appena salgono le capre e domani ne precipitano sfracellati, al sabato sera, alla domenica hanno l’uso del bere. Qualche volta s’ubriacano anche. Ma è la loro vita faticosa che lo richiede. Hanno bisogno di rinvigorirsi, hanno bisogno di obliare fosse pure per due o tre ore, la giovinezza sciupata al sole, la carne arsa, gli occhi sanguinanti pei bianchi riverberi; hanno bisogno di dimenticare che domani forse come il fratello, come lo zio un masso li sfracellerà e che avranno venduto la loro vita o almeno saranno ridotti impotenti per pochi centesimi; due, due e cinquanta, tre lire quotidiane che bastavano appena a sostener la famiglia. […] E forse, nessuna signora quando si tuffa, palpitando, in una vasca di masso lunense, ha mai pensato che forse quel masso un giorno rotolando dal picco dove la forza plutonica dell’Eocene lo aveva sollevato, si bagnò del sangue dell’audace che lo staccò, terribile battesimo, come forse non penserà mai che le perle onde si adornerà qualche momento dopo uscendo, son costate la vita ad un povero negro affamato nelle profondità misteriose dell’azzurro Oceano.
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
da “Dai paesi dell’anarchia” di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi – Illustrazioni di Per Luigi Puccini – Maria Pacini Fazzi Editore; Lucca, 2001
Era una vita dura quella del cavatore, oggi con la tecnologia e le macchine è meno dura ma è sempre pericolosa.
Veramente un articolo molto bello e interessante.