I soci ebrei e i tabù del Cai

L’argomento delle leggi razziali fu a lungo tabù per il Cai, prigioniero e vittima di una sorta di pudore venato d’ipocrisia. Una ventina d’anni fa a tentare di rompere quel tabù fu un piccolo libro, “Scarpone e moschetto”, uscito in una collana diretta da Mirella Tenderini.

Era il 17 maggio 1938 quando, in base a un regio decreto dell’Italia fascista convertito in legge, il Club Alpino Italiano veniva ribattezzato nel più italico Centro Alpinistico Italiano. Pochi mesi dopo, il 17 novembre 1938, venivano invece varate le famigerate leggi razziali che il Cai recepì l’8 maggio 1939 imponendo ai soci di qualsivoglia categoria (onorari, vitalizi, ordinari e aggregati) l’appartenenza esclusiva alla “razza ariana”. 

Su questa ricorrenza è sembrato che, da parte del Cai, fosse finora gravata una certa damnatio memoriae. Ma mai dire mai. Dopo 80 anni, il Cai si è deciso a riaprire la questione e ha inaugurato un percorso di autocritica. Mercoledì 25 gennaio 2023 a sancire l’inedito percorso è stato un incontro con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e la Comunità ebraica di Roma. La Sezione del CAI Milano ha invece indetto per venerdì 27 gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, una serata “per non dimenticare” . Anche la Sezione di Roma si è impegnata sull’argomento. Nessun dubbio che sia l’inizio di un percorso che porterà anche a individuare tutti i soci espulsi (anzi “epurati”) 84 anni fa, e a riammetterli alla memoria come è giusto.

“Ha vinto la verità, ha vinto la storia” annuncia trionfalmente il giornalista e storico Stefano Ardito nel sito montagna.tv. Il tono è giustificato. Un anno fa Ardito raccontò sul “Messaggero” e su “Montagna.tv” la ricerca dell’amico e collega Lorenzo Grassi sui soci ebrei espulsi dalla Sezione dell’Urbe del CAI a seguito delle leggi razziali del 1938, e mai riammessi dopo il ritorno della democrazia in Italia. Prendendo spunto da quella ricerca il CAI nazionale si è impegnato sul tema e lo stesso ha fatto la Sezione di Roma come riferisce Ardito. 

Si sarebbero potuti evitare gli  84 anni di silenzio a cui accenna in questi giorni un comunicato della Sezione di Milano? Occorreva aspettare tanto per varare una mozione e un programma di indirizzo che impegna il Cai a ricostruire i fatti rielaborando la propria storia? Ci voleva tanto per un sodalizio tanto geloso della propria identità a riconoscere la propria responsabilità nel dare continuità alla politica razziale fascista? Era necessaria oggi una mozione per invitare a pubblicare articoli sui fatti e ricerche storiche sull’argomento?

Ogni iscritto la pensi come vuole. Sono trascorsi più di vent’anni da quando su quel poco glorioso passato indagò il libro “Scarpone e moschetto” di Roberto e Matteo Serafin uscito in una collana del Centro Documentazione Alpina diretta da Mirella Tenderini. “Alpinismo e fascismo, rotto un tabù” titolò nel recensirlo Il Sole 24 Ore del 2 giugno 2002. Un po’ di scheletri finalmente uscivano dall’armadio e a sottolinearlo fu nel giornale di Confindustria Andrea Casalegno osservando che “alpinismo e fascismo era per il Cai un argomento tabù per una sorta di pudore venato d’ipocrisia”. 

Per anni il Club Alpino Italiano ha preferito sorvolare nella sua attività culturale sul fatto che la libera associazione fondata da Quintino Sella fosse stata fascistizzata. Alla soglia del nuovo millennio però si cominciò a parlarne. Il libretto del Centro Documentazione Alpina fu recensito sul Corriere della Sera del 15 luglio da Gaetano Afeltra, una delle più illustri firme di via Solferino. “Sul fascismo si è scritto di tutto, e a volte sembra poco resti ancora da scoprire. Ma di alpinismo in camicia nera non capita di sentir parlare tanto spesso, e allora ecco che può rivelarsi piacevolmente istruttiva la lettura di un piccolo libro del Centro Documentazione Alpina intitolato Scarpone e moschetto.”

L’inconsueta natura della ricerca storica colpì un altro maestro di giornalismo, Rolly Marchi, che sul Giornale del 7 luglio 2002 invitò “non soltanto i soci del Cai a leggere e diffondere questo Scarpone e moschetto giacché per chiunque “ci sono pagine lasciate troppo spesso in penombra”. Al libro anzi al libretto fu dedicata l’apertura il 1° giugno del supplemento “Tuttolibri” del quotidiano La Srampa.  Nella rubrica “Luoghi comuni” Oreste Del Buono e Giorgio Boatti offrirono una dettagliata analisi dell’”efficace” volume. Significativo il titolo: “Sui monti, prove d’Etiopia” con riferimento alla vocazione militaresca dell’alpinismo in camicia nera nel regime mussoliniano.

Va ricordato, senza voler trascurare i molti altri giornalisti che ne hanno riferito ampiamente sulle pagine di vari quotidiani cartacei (da Ugo Merlo sull’Alto Adige a Pino Capellini sull’Eco di Bergamo a Luciano Santin sul Messaggero Veneto), anche il giudizio più che lusinghiero di Claudio Ragaini su Famiglia Cristiana numero 30/2002: “Gli autori, attraverso le pagine dello Scarpone, di alcuni organi del Club alpino, e di altre pubblicazioni, hanno ricostruito, con esemplare scrupolo e gusto cronistico, questo spaccato degli anni del Fascismo, portando alla luce storie che oggi possono anche far sorridere, ma che per fortuna non hanno intaccato lo spirito genuino dell’andare in montagna”. Più caute e sfumate le segnalazioni sulle pubblicazioni del Cai, dal Bollettino della SAT alle Dolomiti Bellunesi. Ma le parole del compianto Giovanni Padovani sulla Rivista del Cai di giugno, a pagina 33 (“un libro steso con prosa briosa, nel rigore di una documentata ricerca”) valgono più di chilometriche recensioni.

Per concludere andrebbe rammentato che, in un’appendice basata sulle pubblicazioni d’epoca e rimasta nelle pie intenzioni degli autori, la ricerca avrebbe dovuto riguardare anche gli arditi passaggi messi in atto dagli alpinisti per cancellare il passato in camicia nera: quando le Alpi da teatro di retorico eroismo si sono trasformate in quei luoghi di libertà che per fortuna ancora rappresentano. (Ser)

La circolare del 5 dicembre 1938 con cui la Presidenza generale del Cai fissava i criteri dell’epurazione per i soci non di razza ariana (archivio Sezione di Milano).

La data della Giornata della Memoria non è casuale.
Si è deciso che ogni 27 gennaio venga
effettuata tale celebrazione perché quel giorno
del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono
il campo di concentramento di Auschwitz
sancendo la fine dell’Olocausto.

Un pensiero riguardo “I soci ebrei e i tabù del Cai

  • 31/01/2023 in 15:58
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    Non dimentichiamoci dei molti giovani italiani rastrellati dalle SS per essere deportati in Germania; “comperati” e destinati a lavorare come schiavi nelle fabbriche, racchiusi nei lagher dove hanno patito indicibili sofferenze. Tra i più fortunati sopravvissuti – liberati dai Russi – un giovane appena ventenne rientrato in patria ha testimoniato il suo calvario. Alcuni brevi anni dopo la tubercolosi contratta nei lagher ha spento in uno squallido sanatorio la vita del giovane intelligente promettente intellettuale. Ho conosciuto quel giovane durante la sua estumulazione, un cranio con ancora ciuffi di capelli color rame, poche rare ossa scomposte deposte in una cassetta di zinco; il tempo ha fatto il suo lavoro.
    Al sottoscritto è rimasta una piccola traccia: un piccolissimo quadernetto di appunti e una agendina a tratti illeggibile tanto la calligrafia è minuta. Una piccola traccia che resiste, nonostante tutto, al tempo tiranno.
    Una piccola traccia.. un urlo!

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