“Scarponismo” in camicia nera

La storia dell’alpinismo scorre negli anni trenta anche attraverso la cronaca puntuale degli incidenti, quando i giornali non si limitavano a pubblicare il nome degli alpinisti nel ricorrente “martirologio”. La ricostruzione della tragedia che si è compiuta il 16 settembre 1936 sulla Rasica, in val Masino, spedendo al Creatore sei alpinisti milanesi, rimanda alle atmosfere allucinanti del libro-thriller degli anni Ottanta “Aria sottile” di Jon Krakauer basato su un’analoga tragedia all’Everest. Punta Rasica, 3328 metri, sopra la capanna Allievi è la meta prescelta per il gruppo del Cai di cui fa parte la ben nota signorina Nini Pietrasanta, infermiera di professione e impeccabile alpinista.  La cima viene attaccata con una certa leggerezza per la difficile e affilata cresta sud-sud ovest. Leggerezza che ha a che fare con la generale esaltazione per un “regime che ha salvato l’Italia e per il suo Capo che porta, nel governo del Paese, la serena fermezza, la ferrea volontà, l’indomita passione del soldato e dell’apostolo”, come scrive il generale degli Alpini Angelo Manaresi, presidente generale del Club alpino.  L’alpinismo diviene effettivamente attività di massa per il popolo, purché nella logica dello Stato etico e del corporativismo fascista. Lo sport di montagna, vero e proprio dovere coordinato dal partito, non è solo occasione di propaganda della bonifica fisica e morale cui una buona camicia nera deve attenersi (lo stesso Mussolini non esita a mostrarsi, a petto scoperto, nel praticare sci sul Terminillo) ma anche vero esercizio paramilitare in linea con la componente guerresca sempre presente nell’ideologia fascista che si riaffaccia anche in questo bislacco millennio in cui viviamo. Ma ecco la cronaca della tragedia pubblicata dal quindicinale del CAI Lo Scarpone. (Ser)

La tragedia della Rasica

Lasciati gli scarponi, gli alpinisti milanesi adottarono le pedule e la tecnica rapida. Alle ore 11 in perfetto orario le cordate raggiunsero la sommità della Rasica. Iniziata la discesa il maltempo cominciò a farsi sentire con violenza: alle ore 15 la pioggia e la grandine con nevischio investirono fortemente gli alpinisti, sì che in breve la discesa divenne più lenta e difficile per le corde bagnate che ostacolavano le manovre ai più deboli. Per colmo di sventura il dottor Guidali, giovane di grande ardire e di resistenza non comune, cominciò a dar segni di malessere, disturbi che in breve si aggravarono. 

Procedendo ormai lentamente anche per le condizioni del Guidali, le cordate impiegarono alcune ore per discendere l’ultimo tratto difficile sopra la crepaccia terminale dove tutti pervennero intorno alle 18.30. Alcuni erano esausti come la signorina Nella Verga, l’ing. Pietro Sangiovanni e in condizioni già gravissime il Guidali. La bufera di nevischio e d’acqua e l’oscurità sopraggiunte ostacolarono ben preso ogni possibilità di prosecuzione regolare. 

Un gruppo si arrestò alla crepaccia, mentre due altri gruppi proseguivano poco più avanti per bivaccare anch’essi. Alcuni solo dopo grandi sforzi pensarono di proseguire fino al rifugio per organizzare i soccorsi ai compagni. E’ forse lecito dire che la vicenda non avrebbe avuto più drammatico epilogo salvo quello di un bivacco così disagiato se la bufera per fatale andamento non fosse andata rinforzando su tardi. Sempre più impossibilitati a uscire fuori dalla capanna Allievi, l’ansia di Vitale Bramani e di Elvezio Bozzoli insieme ai due portatori del rifugio andò aumentando fin che radunati indumenti di lana, viveri di conforto e coperte, solo verso le prime ore del mattino essi poterono rifare nuovamente la via su per le rocce coperte da 15-20 centimetri di neve fresca alla ricerca dei compagni. 

Il tempo verso le ore 7 si era rimesso completamente al bello. La burrasca era dunque durata 14 ore. Purtroppo la fatica ed il freddo non intenso ma umido, avevano portato un collasso generale al cuore di tutti gli alpinisti, e ve n’erano di valentissimi che avevano bivaccato fuori. Purtroppo quattro erano già morti: Vittorio Guidi, Nella Verga, Mario Del Grande, Pietro Sangiovanni. Uno dei più infaticabili alpinisti milanesi, il capitano in congedo Antonio Omio, soccorso, cambiato d’indumenti, frizionato e apparentemente in condizioni buone non avendo alcun congelamento, decedeva poco dopo. 

La signorina Nini Pietrasanta che con atto nobilissimo aveva condiviso le ansie del bivacco e si era prodigata nei massaggi e nell’assistenza ai suoi compagni, vedeva svanire le sue speranze. Dopo alcune ore anche il rag. Piero Marzorati, evidentemente esaurito, veniva  calato in barella lentamente dai rocciatori; purtroppo non riusciva a raggiungere la capanna. Un primo allarme giunto a Milano aveva deciso il commendator Leonardo Acquati, presidente della SEM, a portarsi a San Martino in Val Masino dove le prime notizie davano per certo un morto solo. Nella serata perveniva invece il quadro della grave tragedia. Arrivarono a San Martino il dott. Guido Bertarelli, vice presidente della Sezione di Milano del CAI, il conte ingegner Aldo Bonacossa, presidente del CAAI, il commendator Grassi della SEM nella cui sede era stata allestita la camera ardente che fu meta di pellegrinaggi ininterrotto fino alla mattina del venerdì, in cui ebbero luogo i funerali. Fu una vera gara fra i soci della SEM del CAI, del Fior di Roccia, della Falc nel rendere l’ultimo omaggio alla memoria dei camerati così tragicamente scomparsi”.

L’ingresso forzato nel Cai

La tragedia della Rasica getta nello sgomento il mondo dell’alpinismo e la Società Escursionisti Milanesi in particolare, che ha vissuto malissimo l’ingresso forzato nel Cai e il “commissario regio” imposto dal regime, tant’è che dai 1800 soci del 1921 è scesa ai 700 di quegli anni Trenta. E non manca chi, sottovoce, va alla ricerca dei mandanti morali della sciagura: magari prendendo a pretesto in modo un po’ strumentale le parole di Giuseppe Pirovano, illustre guida alpina, che osserva come “in questa meravigliosa nuova Italia la gioventù vuole in ogni campo bruciare le tappe, così anche nell’alpinismo. Ed è bene quando ciò non vada a discapito della metodica preparazione, ma sia soltanto il portato di una più intensa attività”. Fondato è il sospetto che i poveri morti della Rasica abbiano pagato lo scotto di un pernicioso clima di esaltazione che fece irruzione anche nell’alpinismo. 

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