AlpinismoAmbienteCronacheSocietà

Ridateci la montagna “scomoda” 

Continua a fare discutere la proposta di cauzione per salire sul Monte Bianco, “una fra le mille ipotesi di restrizioni e/o barriere d’ingresso alla montagna” come si legge nell’informatissimo Gogna Blog. Dove il 10 agosto si auspica curiosamente il ritorno a una “montagna scomoda” che consentirebbe di evitare “questi modelli scriteriati”. Per dirla tutta, sentire parlare di “montagna scomoda” riporta assai indietro nel tempo. Quando – per l’esattezza nel 1931 – nella Rivista Mensile veniva manifestato “il fermo intendimento di dare al Cai una linea di sempre maggiore austerità e ravvivarne lo spirito con la partecipazione fervida e appassionata di quanti intendono l’alpinismo non solo come esercizio fisico, ma come potente mezzo per l’elevazione culturale e spirituale della razza”.

Da questo punto di vista gli impianti a fune per raggiungere con comodo mete altrimenti proibitive non erano a quei tempi visti di buon occhio dai cultori della “montagna scomoda”. Burro o cannoni?, chiedeva del resto alle piazze Mussolini, così come oggi a palazzo Chigi si propone l’alternativa tra condizionatori per rinfrescarsi quando Caronte imperversa ovvero perseguire provvedimenti per il risparmio energetico a costo di avere qualche grado in più nelle case. Alla domanda del Duce gli italiani risposero optando per i cannoni, salvo poi pentirsene amaramente.

Un piccolo riepilogo. Da principio “quando c’era Lui” si cominciò a guardare con invidia “all’alpinista comodo”. Per esempio, quello spaparanzato nella nuovissima funivia Torre de Busi – Valcava, nelle prealpi lombarde, che avrebbe dovuto “contribuire al sempre crescente sviluppo turistico”. Oggi se ne possono ammirare i rottami. Di “comodo” nell’alpinismo dell’epoca c’era ben poco. Non certo i gelidi e affollati treni della neve organizzati dalle Ferrovie dello Stato “per l’incremento degli sports invernali” (per i quali non veniva richiesta alcuna tessera). E nemmeno le funivie pericolosamente ballonzolanti nel vuoto.

L’alpinismo era visto come un provvidenziale antidoto all’inerzia dei giovani che per un’intera giornata di lavoro nei campi, quando c’era, dovevano accontentarsi di 6 lire e 40 centesimi, equivalenti al prezzo di un chilo di zucchero o due etti di prosciutto. “Non più oziose domeniche sulla piazza del villaggio”, si leggeva nelle pubblicazioni del Cai, “o nelle osterie debilitanti, fra l’abbrutimento dell’alcol e l’inutile ignavia dopo il rude lavoro campestre, ma scarponi chiodati e sacco in spalla verso la gloria delle altezze, verso l’elevazione fisica e spirituale, soldati della montagna che impareranno ad amare di più, a conoscere meglio!”. E il Club alpino era riconosciuto come “potente esercito di atleti in gara perpetua con l’aspra montagna”. Chi mai avrebbe osato auspicare una montagna comoda? (Ser)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *