“Wilderness medicine” / Esperienze e strategie a confronto

Una lettura magistrale ha dato il via dal 5 al 7 novembre a Romano da Ezzelino in provincia di Vicenza alle “Giornate di aggiornamento su argomenti di Expedition and Widerness Medicine” (spedizioni e medicina in ambienti estremi).  James Moore, director of the International Diploma in Expedition and Wilderness Medicine, Royal College of Physicians and Surgeons of Glasgow, fellow of the Faculty of Travel Medicine and of the Royal Geographical Society, ha tenuto la lettura dal titolo “An overview on the state of the art of Expedition and Wilderness Medicine” ricordando i viaggi di Marco Polo (1254-1324), Giovanni Caboto (1450-1500), Cristoforo Colombo (1451-1506), Amerigo Vespucci (1451-1512), fino ad arrivare, nella sua panoramica, al già leggendario Reinhold Messner, che ha scalato in solitaria il monte Everest, salendolo anche senza l’utilizzo di ossigeno supplementare e raggiungendo tutte le 14 vette del mondo con un’altezza di ottomila metri. 

Il focus si è spostato, poi, su problemi legati anche a imprese diverse da quelle alpine, che, inizialmente, avevano come scopo l’esplorazione, le scoperte scientifiche, la colonizzazione, l’acquisizione di ricchezze.  E’ stato affrontato l’argomento “scorbuto”, una malattia endemica tra i marinai dei secoli scorsi, in particolare quelli che accompagnarono Magellano (1480-1521) nella circumnavigazione del globo. Nel caso specifico morì di scorbuto più dell’ottanta per cento dell’equipaggio. Si dovette arrivare più o meno alla metà del Settecento perché James Lind (1716-1794), medico del Royal Hospital di Haslar, studioso di igiene navale e di medicina preventiva nel Regno Unito promovesse l’assunzione di agrumi e di frutta fresca, quindi di vitamina C, per prevenire lo scorbuto e guarirne. Questo medico è stato anche un pioniere della medicina tropicale. 

Le insidie del fiume Congo

Giovanni Lancisi (1654-1720) è stato il medico italiano che ha scoperto la correlazione tra zanzare (il vettore) e malaria. Pellegrino Matteucci (1850-1881) medico, esploratore e geologo lo si ricorda perché è stato il primo europeo ad attraversare per intero il continente africano. David Livingstone (1813-1873) è stato un medico, missionario ed esploratore scozzese dell’età vittoriana. È ritenuto un pioniere della medicina delle spedizioni. È morto di malaria nello Zambia. 

Henry Morton Stanley (1841-1904), giornalista ed esploratore britannico, è diventato famoso per le esplorazioni africane e per essere andato alla ricerca di Livingstone. Nel corso della sua spedizione sul fiume Congo numerose persone morirono per vaiolo (45), dissenteria (11), annegamento (14), condanna a morte (5), febbre (2), assassinio (58) e attacco di un coccodrillo (1). Alcuni impazzirono, altri morirono di fame o vennero mangiati dai nativi (Through the dark continent, H. Stanley, 1878).

Joseph Lister (1827-1912) è stato un chirurgo britannico che ha inventato e fatto conoscere un metodo di antisepsi rivoluzionario nel campo della chirurgia.  Ed è ancora nell’Ottocento che sono vissuti Louis Pasteur (1822-1895) e Robert Koch (1843-1910) che diedero una svolta con le loro scoperte rivoluzionarie.

George Murray Levick (1877-1956) è stato un chirurgo ed esploratore britannico. Nel 1910 ha partecipato alla spedizione in Antartide Terra Nova (Terra Nova Expedition) di Robert Falcon Scott. Famose le sue osservazioni sugli inusuali comportamenti sessuali dei pinguini Adelia, annotate in un libro scritto in greco antico per evitarne la divulgazione. 

Edward Adrian Wilson (1872-1912), medico, naturalista, pittore e ornitologo britannico, nel 1912 ha partecipato alla spedizione di Scott in Antartide, morendo durante il viaggio di ritorno con altri quattro uomini. A quei tempi i partecipanti alle spedizioni erano scienziati o esploratori. Erano forti e dotati di grande esperienza e di altrettanta forza d’animo. Scott aveva scelto per una spedizione polare il suo equipaggio dopo aver valutato ottomila individui. 

Il dottor Giancelso Agazzi, vicepresidente della Società Italiana di Medicina di Montagna, ha riferito alle “Giornate di aggiornamento su argomenti di Expedition and Widerness Medicine” particolari della storia del soccorso in montagna a partire dalle sue origini. 

La storia del soccorso in montagna

Le spedizioni moderne nascono in un momento in cui le esplorazioni e la colonizzazione sono ormai finite. Alcune di quelle attuali hanno come meta la ricerca di minerali o di metalli preziosi, altre vengono organizzate con scopi scientifici o medici, umanitari o di semplice avventura. Ci sono spedizioni a cui partecipano persone prive di esperienza, che non hanno mai viaggiato, poco preparate dal punto di vista fisico. Talvolta i componenti di una spedizione sono affetti da malattie croniche come l’asma. Le principali cause di mortalità nel corso delle moderne spedizioni sono: atti criminali, colpo di calore, esercizio fisico accompagnato da iponatremia, attacchi di animali selvatici, malattie d’alta quota, malaria e incidenti stradali. Le principali problematiche che riguardano le spedizioni attuali sono: diabete, asma, epilessia, malattie mentali, fibrosi cistica, compromissione del sistema immunitario, disturbi gastroenterici

Giancelso Agazzi, vicepresidente della Società Italiana di Medicina di Montagna, ha raccontato la storia del soccorso in montagna a partire dalle sue origini. Andrea Galvani, consigliere della Società Italiana di Medicina Subacquea e Iperbarica (SIMSI, www.simsi.it) e medico del Centro Iperbarico di San Marino, ha parlato della medicina subacquea in luoghi remoti e del ruolo dei medici e degli infermieri nell’attività subacquea industriale. Esistono attualmente la figura del dive doctor e la telemedicina offshore. Il relatore ha parlato della sua esperienza sul fiume Congo nel 2015 per prestare assistenza sanitaria agli operatori tecnici subacquei presenti sulle piattaforme. Molti sono i cantieri di questo tipo esistenti nel mondo. Il 19 settembre 2015 è stata rimossa dai fondali dell’isola del Giglio l’ultima piattaforma su cui è stata appoggiata per un anno e mezzo la carcassa della nave Costa Concordia.

Le patologie da decompressione

Gli operatori possono lavorare su basso fondale (entro i 50 metri di profondità) o su alto fondale (a oltre 50 metri di profondità). Lavorano in turni diurni o notturni e, a volte, sono dotati di mute riscaldate. Vivono in una camera apposita in profondità, assistiti da un dive doctor. Le diving illness (patologie da decompressione) sono meno del 10%. In caso di necessità si può contare su evacuazioni in elicottero. 

Marco Baruzzi,  già ufficiale medico presso i reparti speciali (Comando subacqueo Incursori) della Marina Militare italiana al Varignano (COMSUBIN), coordinatore del gruppo di studio emergenze iperbariche SIAARTRI di Grosseto ha preso, poi, la parola. Il relatore è stato per alcuni anni a bordo della nave Anteo. Nel corso del suo intervento ha raccontato la sua esperienza in Marina.

Danilo Cialoni, Dan Europe Research Area supervisor, coordinator, Research Techniques Development, ha, poi, preso la parola per affrontare il tema della telemedicina e del progetto Avatar (Advanced virtually assisted telemedicine in adverse remoteness). Il progetto nasce dall’idea di poter garantire assistenza medica subacquea in real time in aree remote del pianeta. Grazie alla telemedicina i dati di un subacqueo presente in una base possono essere trasmessi in ogni parte del mondo. Esistono algoritmi specifici dedicati agli ambienti estremi. I dati possono essere trasmessi tramite wearable device. In tal modo si possono gestire le emergenze subacquee (from remoteness to a control center). Si utilizzano strumenti scafandrati. 

Il monitoraggio della funzionalità cardiaca

Alcune App per smartphone aiutano nella raccolta dati, con monitoraggio approfondito delle funzionalità cardiaca e respiratoria degli operatori subacquei. Vengono utilizzati elettrocardiografi a 12 derivazioni. Esistono underwater device e surface device.  Una centrale automatica di raccolta dati è in grado di gestire l’arrivo simultaneo di grandi quantità di dati ed effettuare un primo processo di analisi per individuare situazioni potenzialmente pericolose. Il Dan-Avatar possiede, poi, una centrale di emergenza intelligente che, integrando le informazioni ricevute, grazie a un team medico attivo 24 ore è in grado di garantire un supporto medico avanzato a distanza e l’eventuale evacuazione del paziente. Alcuni algoritmi matematici calcolano i tempi di decompressione. Lo Sky Scuba Space è un altro progetto che utilizza wearable device (T-shirt sensorizzate) e che si occupa di fisiologia dell’estremo. Gli accelerometri sono strumenti che servono a ricostruire la posizione di un corpo e a individuare quando un soggetto ha un’apnea (polisonnografia). In tal modo si riducono gli errori.

Matteo Paganini, medico del dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova, ha parlato della medicina subacquea nelle emergenze in alta quota. In simili evenienze si può utilizzare il cassone iperbarico portatile per risolvere le malattie causate dall’alta quota (HAPE e HACE). In caso di congelamento si può far ricorso alla terapia iperbarica per favorire la riperfusione dei tessuti. Le sedute vanno organizzate tempestivamente: 30-60 sessioni di terapia iperbarica a 2,5 ATA per 90 minuti. 

Tommaso Antonio Giacon, Master di II livello in Medicina Subacquea ed Iperbarica dell’Università di Padova ha presentato la relazione dal titolo “Velisti: cosa ne sappiamo?”. Il relatore ha parlato dello stress ossidativo dei velisti, dell’isolamento in cui si trovano, dell’instabilità e dei pericoli cui sono sottoposti. Nel 2023 si svolgerà la Ocean Race, una regata transoceanica. La Volvo Ocean Sailing è la più grande regata transoceanica esistente. La Vandée Globe è la più grande regata in solitaria intorno al mondo, che ha una durata di circa 80 giorni. Dal 1989 134 persone sono riuscite nell’impresa. 

Il velista è sottoposto a uno sforzo fisico incostante, non graduale. Può essere definito una persona normale che fa cose straordinarie. Non è dotato, in genere, di una grande prestanza fisica. Gli viene richiesto di sviluppare una forza isometrica, con sforzi brevi e frequente attivazione neuronica. La sua è una nutrizione strana. Ha un consumo calorico esagerato e mangia meno del fabbisogno, spesso per mancanza di tempo. Riduce di solito le scorte di cibo all’essenziale per limitare il carico sulla barca. 

Nelle regate d’altura di verifica una diminuita capacità ossidante, con un incremento della creatininemia, dovuto alla disidratazione e della cortisolemia, l’ormone dello stress.

Il problematico sonno del velista

Per un velista è difficile gestire il sonno. Di solito dorme due ore al giorno (micro sonnellini). Si assiste a un deterioramento delle prestazioni come conseguenza dell’alterazione dei ritmi circadiani. Di solito si alternano tre ore di attività, tre ore di inattività e tre ore di sonno. Il velista perde in genere un chilogrammo e mezzo di peso in tre giorni. Si verifica una diminuita capacità ossidante, con un incremento della creatininemia, dovuto alla disidratazione e della cortisolemia, l’ormone dello stress. Si verifica una deregulation della cinetica del cortisolo. È possibile osservare un decadimento psichico e fisico. Anche la termoregolazione viene compromessa.Il 50% dei velisti soffre di mal di mare. Il velista è soggetto a traumi e usura e può essere paragonato ad un astronauta. Giacon ha concluso il suo intervento parlando dell’esperienza personale fatta con l’Offshore Sailing Experiment,una regata di tre giorni di navigazione tra Lisbona e le Azzorre, realizzata per verificare le capacità di alcuni giovani velisti.

Gerardo Bosco, professore associato dell’università di Padova, presidente SIMSI, ha parlato dell’impatto della pratica clinica sulla medicina iperbarica e subacquea, illustrando alcuni studi realizzati sulla drosophila e su culture di cellule. Il relatore ha parlato della malattia da decompressione e della sincope, del disbarismo e della tossicità dell’ossigeno oltre i 18 metri di profondità. Nel 1978 è stata realizzata una spedizione in Peru con immersioni in laghi di alta quota (ipossia ipobarica, 4000 metri), con la partecipazione dell’apneista francese Jaques Mayol.  Nel corso di una missione alle isole Tremiti è stata fatta la quantificazione dello stress ossidativo in alcuni subacquei. Bosco ha parlato dello studio condotto al lago Verney nella zona di La Thuile, in Valle d’Aosta per studiare i disbarismi e l’attivazione delle piastrine. La somministrazione di ossigeno puro fa diminuire l’attivazione delle piastrine. Nel corso di alcune immersioni è stato studiato lo stress ossidativo nei subacquei. Sono stati realizzati degli studi in una piscina di Montegrotto ad una profondità di 40 metri, con l’esecuzione di emogasanalisi arteriose e con studi ecografici. Presso l’università di Padova è stato istituito un master di II° livello in diving and hypobaric medicine

Malattie d’alta quota

Sono stati organizzati quattro workshop che hanno avuto come tema l’utilizzo del cassone iperbarico portatile Gamow in alta quota,la medicina dei viaggi, il trattamento in emergenza delle emorragie e il trattamento sul terreno di un traumatizzato.

Lorenza Pratali, presidente della Società Italiana di Medicina di Montagna ha parlato delle malattie d’alta quota. La relatrice ha esordito parlando di Marco Polo e dei suoi viaggi lungo la via della seta, attraversando catene montuose dove aveva sentito parlare del male acuto di montagna. Angelo Mosso è stato un fisiologo italiano che tra i primi si è occupato di ipossia. Thomas Holmes Ravenhill (1881-1952), capitano medico del Royal Army Medical Corps di stanza sulle Ande, nel 1913 ha descritto la puna (normale, nervosa e cardiaca) o soroche, ovvero il male acuto di montagna. La malattia acuta d’alta quota (AMS) è una sindrome caratterizzata dalla comparsa di sintomi non specifici, pertanto soggettivi. Colpisce persone non acclimatate. La quota di insorgenza è 2500 metri. I sintomi si sviluppano di solito dopo 6-10 ore dall’arrivo in altitudine. Può progredire in edema cerebrale d’alta quota. Le ipotesi patogenetiche sono un’alterata permeabilità vasale che conduce ad edema vasogenico, disfunzione di membrana da ipossia, aumentato flusso ematico cerebrale, effetto dell’onda sfigmica, alterazione della emodinamica cerebrale, conformazione della scatola cranica (P.Hackett, 1999, Wild Environ. Med.). 

I segni della malattia acuta d’alta quota sono: edemi periferici (orbite, mani, piedi), cianosi delle labbra, incapacità di camminare in linea retta (atassia). Esistono una ventina di scoreper la valutazione dell’AMS. Il Lake Louise Score è il più usato ed aiuta in una valutazione dell’AMS sul campo almeno dopo sei ore. L’AMS è presente a partire da uno score superiore a tre. Fattori predisponenti sono: residenza a bassa quota e assenza di acclimatazione, suscettibilità individuale, pregressi episodi di AMS, età (i giovani sono più predisposti), eccellente condizione fisica, ridotta risposta ventilatoria all’ipossia, obesità, russatori, emicrania, interventi di radioterapia sul collo. Esistono tre gradi di AMS: lieve (un po’ di fastidio, senza limitazione dell’attività con buona risposta ai farmaci sintomatici), moderato (discretamente fastidioso, con limitazione delle attività quotidiane, risponde ai farmaci, ma, poi, ritorna), severo (impedisce le attività, con scarsa risposta ai farmaci). Il mondo delle App è sempre più sviluppato e può aiutare a capire l’AMS ed a curarlo. Studi scientifici hanno dimostrato che il diametro del nervo ottico, misurato con ecografo, correla con la presenza e la gravità dell’AMS (aumentata pressione intracranica).

L’importanza di una buona idratazione

Per prevenire l’AMS si deve salire in modo graduale, evitando sforzi intensi. In caso di AMS si deve scendere di almeno 500 metri o comunque all’ultima quota dove il soggetto era asintomatico. Va mantenuta una buona idratazione, assumendo liquidi. Nel caso si voglia trascorrere la notte ad oltre 3000 metri si deve cercare di evitare il più possibile l’uso di mezzi di risalita. Non si devono assumere bevande alcooliche o sonniferi, soprattutto benzodiazepine. Qualora si debbano raggiungere quote al di sopra di 3000 metri con aerei o elicotteri o con mezzi meccanici, è raccomandato assumere acetazolamide:125-250 mg.  ogni 12 ore a partire dalla sera precedente la partenza, o desametasone 2-4 mg. per os ogni sei ore. Se si programma di trascorrere la notte a più di 3000 metri in presenza di anamnesi positiva per edema polmonare acuto d’alta quota si deve assumere nifedipina. In caso di AMS leggero non si deve salire ulteriormente, riposando. Va mantenuta una buona idratazione, evitando sforzi e riparandosi dal freddo. Si deve dormire con il tronco leggermente sollevato. Si devono assumere aspirina o paracetamolo e un farmaco anti-nausea/vomito. Se dopo 6-12 ore la situazione non migliora si può assumere acetazolamide (compresse) 250 mg. per due volte al giorno. Il farmaco ritarda l’insorgenza dell’AMS e delle sue complicanze, limitando gli edemi sottocutanei e sopprime la respirazione “paradossa” notturna. L’acetazolamide facilita l’escrezione dei bicarbonati, riduce l’alcalosi respiratoria ed aumenta la frequenza respiratoria. 

Qualche giorno prima della partenza per un trekking è opportuno testare la reazione individuale con un’assunzione unica del farmaco. Nel caso di AMS moderato-severo si deve non salire ulteriormente, riposare, idratarsi (> 3 litri al giorno), ripararsi dal freddo e dormire semiseduti. Assumere aspirina o paracetamolo e un farmaco anti-nausea/vomito. Si deve assumere acetazolamide (diamox) 250 mg. (compresse) due volte al giorno e/o desametasone (decadron) in compresse da 2 mg. ogni sei ore oppure 4 mg. ogni 12 ore. Desametasone per os o intramuscolo: 8 mg. seguito da 4 mg. ogni sei ore. Si può somministrare ossigeno supplementare o utilizzare il cassone iperbarico, una camera pressurizzata dotata di un oblò di controllo, con chiusura ermetica, valvole ed una pompa a mano o a piedi.

Edema polmonare acuto: chi rischia di più

L’edema cerebrale acuto d’alta quota (HACE) insorge nel periodo di acclimatamento (da 3500 a 5000 metri) o ad altissima quota intorno a 7000 metri. Ha una prevalenza dello 0,1-1% tra 4200-5500 metri. Fattori favorenti: la mancanza di acclimatamento e lo stato di AMS. Il quadro di ipertensione endocranica è rappresentato da: mal di testa resistente al trattamento analgesico, vomito a getto, atassia della marcia, cambio di umore, dispnea e delirio e/o allucinazioni. Guarisce rapidamente se si scende di quota. La perdita di conoscenza, seguita da decesso si verifica nel 60% dei casi. Per quanto riguarda il trattamento dell’HACE si deve scendere di 500-1000 metri, o usare il cassone iperbarico o l’ossigeno (2-4 litri/minuto). Si deve assumere nell’adulto desametasone per os, intramuscolo o endovena 8 mg. seguiti da 4 mg. ogni 6 ore. Nel bambino 0,15 mg./ Kg.  ogni sei ore (massimo 4 mg. x dose). In caso di nuova ascesa somministrare acetazolamide: 250 mg.x 2/die.

Fattori associati ad aumentato rischio di edema polmonare acuto d’alta quota (HAPE) sono: suscettibilità individuale, presenza di pervietà del forame ovale, atresia e/o ipoplasia dell’arteria polmonare, presenza di ipertensione polmonare a bassa quota, embolia polmonare, infiammazione sistemica ed esercizio fisico intenso. L’HAPE presenta una prevalenza <0,2% nei frequentatori della montagna (ascensioni uguali o superiori a 3 giorni). Tra gli sciatori delle Rocky Mountains in Colorado la prevalenza va dallo 0,01 allo 0,1%. Tra i trekkers in Nepal a 4200 metri la prevalenza è del 4%. Gli alpinisti che salgono alla capanna Regina Margherita (4559 metri) presentano una prevalenza del 4% se salgono in 2-4 giorni, del 6% se salgono in 24 ore. Se vi sono precedenti di HAPE si ha una prevalenza tra il 60-70%. L’HAPE si manifesta oltre i 2500 metri di quota entro 1-5 giorni dall’arrivo. Rappresenta la principale causa di decesso in alta quota. La mortalità è del 44% se non si provvede a scendere di quota o se non lo si tratta. La prevenzione è efficace. 

Nella fase di insorgenza si manifestano dispnea e tosse secca. Spesso si associa all’AMS. Nella fase di stabilizzazione si assiste alla comparsa di catarro denso e roseo, rantoli polmonari e cianosi. Compaiono, inoltre, debolezza e riduzione della performance all’esercizio, compressione toracica o senso di congestione polmonare, tachicardia e tachipnea. Per la profilassi dell’HAPE: nifedipina 30 mg. ogni 12 ore, tadalafil 10 mg. ogni 12 ore, desametasone 8 mg. ogni 12 ore, salmeterolo 125 mcg. 1 puff ogni 12 ore. In caso di HAPE si deve scendere di 500-1000 metri, somministrare ossigeno 2-4 litri/minuto, usare il cassone iperbarico portatile. Il trattamento farmacologico prevede la somministrazione di nifedipina a lento rilascio max 60-80 mg. in caso di risalita post-HAPE somministrare nifedipina 60 mg. a lento rilascio al giorno. È pericoloso somministrare digitalici, diuretici e morfinici.

Giacomo Strapazzon dell’Istituto di Medicina di Emergenza in Montagna dell’Eurac di Bolzano ha parlato della diagnosi e del trattamento dell’ipotermia, dei principi di trattamento dei congelamenti e del trattamento del travolto da valanga. Strapazzon ha indicato alcune raccomandazioni nella fase pre-ospedaliera. Spesso i casi più gravi di ipotermia si verificano in periodo estivo, soprattutto a causa dei cambiamenti repentini metereologici. L’ipotermia primaria si verifica quando la produzione di calore in un soggetto sano viene sopraffatta da un freddo eccessivo, specialmente quando le riserve di energia del corpo umano si sono esaurite. Fattori che possono influenzare il raffreddamento sono la costituzione fisica individuale (predisposizione al brivido o a muoversi), isolamento, concomitanza di lesioni o di malattie, condizioni ambientali. I fattori fisici che regolano lo scambio di calore sono la conduzione, la convezione, la radiazione e l’evaporazione.

Va attuata una prevenzione pre-ospedaliera della perdita di calore. Ci si dovrebbe servire di una barriera di vapore e di uno strato isolante, meglio se l’isolamento termico riguarda tutto il corpo. Utile l’uso di chemical heat pack (al tronco) se il brivido (shivering) è diminuito o assente (ipotermia di grado II-IV). Non è possibile riscaldare il corpo sul terreno mediante infusione di liquidi caldi per via endovenosa o facendo ricorso a gas caldi e umidificati. Vanno monitorate l’attività cardiaca e la temperatura del core. La classificazione svizzera dell’ipotermia è stata revisionata (4 stadi).

Al di sotto dei 32°C gli enzimi non funzionano più ed i farmaci funzionano in modo diverso. Il consumo di ossigeno diminuisce in caso di ipotermia.

L’HOPE score è in grado di predire la prognosi dei pazienti ipotermici in arresto cardiaco dopo Extracorporeal Life Support  (https://www.urg-admin.ch/hope/). In caso di ipotermia aumenta in modo progressivo il rischio di arresto cardiaco. In taluni casi si ha la possibilità di effettuare una rianimazione intermittente (5 minuti di massaggio alternati a 5 minuti di trasporto).

Strapazzon ha, poi, parlato della classificazione dei congelamenti e del rischio di amputazioni dopo la fase di riscaldamento, secondo quanto messo a punto da Emmanuel Cauchy. La fisiopatologia dei congelamenti comprende una serie di processi a cascata. Nella fase di raffreddamento si verificano: vasocostrizione, danno neurologico con perdita di sensibilità, formazione di cristalli, alterazione del pH e degli elettroliti, disidratazione a livello cellulare, danno cellulare, danno microvascolare e ischemia, danno tissutale e necrosi. Durante la fase di riscaldamento si verificano: danno da riperfusione, infiammazione, vasocostrizione, fenomeni trombotici ed occlusivi a livello vascolare, formazione di vesciche, danno tissutale e necrosi. Tutte le azioni attuate per correggere e mantenere stabile la temperatura del core dovrebbero essere messe in atto, includendo un riparo che isoli il corpo dall’ambiente esterno. Abiti e scarponi umidi vanno rimossi se possibile. Vanno somministrati liquidi caldi e forniti indumenti caldi e asciutti, oppure un sacco a pelo.

Non si devono sfregare le parti congelate per non peggiorare lo stato dei tessuti. Se il tessuto è ancora congelato o se lo è in parte e se non vi è il rischio di ricongelamento, e se è disponibile l’equipaggiamento, le parti congelate possono essere immerse al più presto in acqua calda (37-39°C). La durata dell’immersione dovrebbe durare tra 30 e 60 minuti o fino a che la pelle non assuma un colore rosso-porpora. Se non è possibile effettuare un riscaldamento con l’acqua calda, le dita possono essere riscaldate ponendole accanto a pelle calda come l’ascella o l’inguine, o ricorrendo a uno scalda mani o a degli heat pack. Spesso si verifica un ritardo nella diagnosi di congelamento e spesso si verifica uno scongelamento spontaneo. In tal caso un rapido riscaldamento può non essere importante, ma offre la possibilità di una massima vasodilatazione e di effettuare una pulizia della parte lesionata. Benché non ne sia dimostrata l’efficacia per i congelamenti, i farmaci bloccanti dei canali del calcio e gli inibitori PDE-5 sono vasodilatatori che forniscono un efficace beneficio nei fenomeni di Raynaud e che, spesso, si trovano nei kit medici sul terreno, specialmente in alta quota. Sildenafil (50-100 mg., due volte al giorno), tadalafil (10 mg. due volte al giorno), o nifediina (30 mg. a lento rilascio, due volte al giorno). Tali farmaci non vanno usati insieme. Alcuni pazienti possono richiedere l’uso di narcotici analgesici durante o dopo il riscaldamento (ketorolac). In alta quota, quando la saturazione arteriosa in ossigeno è inferiore al 90% (solitamente al di sopra dei 4000 metri) si può considerare l’utilizzo dell’ossigeno o del cassone iperbarico portatile, se possibile. Si suggerisce, subito dopo un rapido riscaldamento, una sessione di un’ora in un cassone iperbarico portatile, da ripetere ogni tre ore nel corso delle prime 12 ore in attesa dell’evacuazione.

La discesa permette di far salire la saturazione arteriosa dell’ossigeno. Vanno rimossi anelli o altri materiali esterni dalle parti del corpo colpite da congelamento. Si può somministrare Ibuprofen (12 mg./Kg. al giorno, in due somministrazioni). Va effettuata la terapia analgesica se necessaria. Proteggere da ricongelamento o da trauma diretto. Si può applicare a livello locale una crema o un gel di aloe vera se disponibili. Si deve cercare di tenere sollevata la parte del corpo colpita dal congelamento. Importante l’idratazione sistemica. Si deve evitare di camminare sulle estremità inferiori che si sono scongelate.

 In letteratura esistono scarsi studi scientifici sui congelamenti. È possibile effettuare dei teleconsulti a distanza se ci si trova in luoghi remoti del mondo nel corso di una spedizione alpinistica con un caso di congelamento. In Italia sono attivi due centri che curano i congelamenti, Aosta e Brunico. Sarebbe importante creare una rete a livello internazionale.

Gestione dei travolti in valanga

 
Una moderna camera iperbarica.

Strapazzon ha, poi, parlato della gestione del travolto in valanga. Se una persona è sopravvissuta a una valanga, se è da sola ed ha estratto un compagno privo di conoscenza, può prendere una decisione in base alla situazione in cui si trova. Esiste una curva di sopravvivenza nei travolti in valanga. In caso di seppellimento completo il 51,39% dei travolti viene estratto morto, mentre in caso di seppellimento parziale solo il 4,4% viene estratto morto. Prima di effettuare la ricerca di un travolto si deve individuare un leader e verificare la sicurezza. Poi, si procede alla ricerca sulla superficie della valanga utilizzando l’Artva e le sonde in modo strategico. Una volta individuato il corpo si procede alla medicalizzazione del paziente ed alla sua evacuazione. La percentuale di sopravvivenza in caso di presenza di bystander, prima dell’arrivo dell’elicottero, è del 74%. Se, invece, intervengono i team di soccorso organizzato, dopo l’arrivo dell’elicottero la percentuale di sopravvivenza è del 19%. La densità della neve condiziona la respirazione del travolto. La presenza di un air pocket (una sacca d’aria) favorisce una maggior sopravvivenza. Importanti sono  prevenzione, preparazione, sicurezza ed equipaggiamento. L’utilizzo di un avalanche flotation device aumenta la sopravvivenza del 50%. Importante la consultazione del bollettino valanghe, prima di intraprendere un’escursione invernale.

Simona Mrakic Sposta, ricercatrice dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Milano, ha parlato di “Stress ossidativo e infiammazione: nodi di giunzione tra la medicina di montagna e la medicina subacquea/iperbarica”. Esiste un equilibrio tra anti-ossidanti e pro-ossidanti. Quando tale equilibrio si altera compare lo stress ossidativo. In alta quota l’ipossia altera questo equilibrio, provocando danni molecolari. 

I radicali liberi sono prodotti di reazioni chimiche fisiologiche che utilizzano l’ossigeno. Sono molecole particolarmente reattive ed altamente instabili. In ipossia normobarica i radicali liberi aumentano e la saturazione diminuisce. L’esposizione ad alte concentrazioni di ossigeno produce danni, con il rilascio di ROS (Reactive Oxygen Species). Questi ultimi sono gli attori dello stress ossidativo. I ROS hanno un’emivita molto breve. Sono il prodotto inevitabile del metabolismo dell’ossigeno e la loro concentrazione è determinata da uno stato di equilibrio tra la velocità di produzione e la velocità di eliminazione da parte di anti-ossidanti ed enzimi. Sono altamente instabili e posseggono un elettrone spaiato che rubano alle cellule vicine per pareggiare la loro carica elettromagnetica (lipidi, proteine, DNA), provocando danni. Esistono diverse specie di radicali liberi. Vi sono fonti esterne: radiazioni UV, gas di scarico delle automobili, sigarette e tabacco, alimenti e alcool, farmaci e smog, ipossia e iperossia, ischemia/riperfusione, esercizio, overtraining. Fonti interne sono: cellule, produttori diretti o indiretti di ROS, enzimi, metabolismo, obesità, malattie, fattori genetici, invecchiamento. Esiste una forte correlazione con i fattori di trascrizione. Varie sono le metodiche per effettuare il dosaggio dei radicali liberi (kit del commercio, risonanza paramagnetica elettronica). I soggetti più allenati subiscono meno danni. L’attività fisica eccessiva può produrre danni. Lo stress ossidativo provoca un invecchiamento prematuro e patologie varie.

Alberto Tomasi, presidente della Società Italiana di Medicina dei Viaggi (SIMVIM) (www.simvim.org), ha inaugurato la sessione dedicata alla medicina dei viaggi, con una presentazione dal titolo “Come torneremo a viaggiare? Vecchie e nuove vaccinazioni”. Il relatore ha esordito citando la seguente frase di Andrei Nikiforuk nel suo libro “Il quarto cavaliere”: “Dei quattro cavalieri dell’Apocalisse: la guerra, la morte, la carestia e la pestilenza, quest’ultimo è forse il più temibile. In effetti malattie ed epidemie di ogni tipo nel corso dei secoli si sono dimostrate capaci di minare la solidità di grandi imperi, sconfiggere potenti eserciti, cambiare per sempre il nostro modo di vivere e amare”. Negli ultimi anni si è assistito ad un veloce incremento dei viaggi nel mondo in relazione all’aumento della popolazione mondiale. Nel 1918 la popolazione mondiale era di 1,7 miliardi, un quinto di quella attuale. L’americano Charles Lindbergh a bordo dell’aereo monomotore ad ala alta Ryan Spirit of St. Louis, il 20 e il 21 maggio del 1927 compì il volo senza scalo New York-Parigi (5860 Km.) in 33,5 ore. Oggi il volo viene effettuato in meno di 7 ore, viaggiando cinque volte più velocemente. Si sono avverate le previsioni dell’OMS:”Il virus farà il giro del mondo, perché se gli uomini viaggiano, i virus viaggiano con loro”.

Oggi si viaggia per turismo, lavoro, missioni sanitarie, missioni religiose, sport, migrazioni, VFR (Visiting friends and relatives), viaggi speciali, studio, frequent flier e viaggi avventura. A partire dal 2050, se non si prenderanno provvedimenti, più di 143 milioni di persone si muoveranno partendo da Africa, india e America del sud. La sindrome di Salgari è la predisposizione degli operatori sanitari a ricercare patologie esotiche nei soggetti immigrati, basandosi sul preconcetto che il provenire da un altro paese (specie se tropicale o subtropicale) corrisponde inevitabilmente all’essere portatori di condizioni inusuali. Lo scopo della medicina dei viaggiatori è di proteggerli da eventuali rischi per la propria salute. L’efficacia della medicina dei viaggi si misura dalla capacità di individuare e proporre farmaci, vaccini, terapie ed i comportamenti più adatti, evitando di generare preoccupazioni o paure inutili e dispendiose. Il viaggiatore preparato può affrontare e godere qualsiasi viaggio. Nel febbraio 2020 l’OMS ha coniato il nuovo termine infodemia (epidemia di informazione), la proliferazione incontrollata di notizie scientifiche scarsamente affidabili. Una sovrabbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rende difficile alle persone trovare fonti affidabili e una guida sicura quando ne hanno bisogno. Ora ci si deve impegnare per una corretta comunicazione per contrastare l’effetto negativo dell’adesione vaccinale dovuta all’allarme mediatico creatosi nella popolazione. Tra le tante attività sanitarie la necessità di garantire assistenza a tutti i viaggiatori occupa un posto di rilievo. Gli ambulatori di medicina dei viaggi sono presenti in tutte le ATS. Importante è fare rete, attuando programmi di prevenzione. Tutti coloro che dimenticano il passato sono condannati a riviverlo (M. Levi). Il relatore ha ricordato il calendario vaccinale per la vita. Luigi Rossi, direttore Z/D Piana di Lucca AUSL Toscana Nordovest ha presentato una relazione dal titolo “Ci ammaleremo ancora di influenza?”.

Morsi e punture in terra e in mare

Andrea Rossanese, organizzatore del convegno, ha concluso i lavori con una presentazione dal titolo “Morsi e punture di terra e di mare”. Ogni anno si registrano in tutto il mondo oltre centomila morti causate dal morso di serpente. Oltre il 50% dei morsi sono dry bite. I serpenti si dividono in Elapidi (avvelenamento per via sistemica) e Viperidi (avvelenamento locale). Tra le misure di prevenzione si deve evitare un secondo morso e si deve cercare di identificare il tipo di serpente. Vanno rimossi dal corpo anelli o altri oggetti presenti. L’arto sede del morso va immobilizzato. Non si deve applicare un tourniquet o incidere la cute o tentare di succhiare il veleno. Rossanese ha parlato anche del morso dei ragni e delle meduse.

Giancelso Agazzi

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