Indimenticabili / Miro, affabile re della Patagonia
Tra i grandi della montagna lombarda il lecchese Casimiro Ferrari (1941-2003), del quale in questo 2021 si celebra l’ottantennale dalla nascita, occupa una posizione privilegiata. Il suo capolavoro? Nessun dubbio, la storica spedizione dei Ragni di Lecco che il 13 gennaio 1974 ha portato in vetta al Cerro Torre Daniele Chiappa, Mario Conti, lo stesso Ferrari e Pino Negri. La sua vita e le sue imprese sono raccontate nel libro “Casimiro Ferrari, l’ultimo re della Patagonia” di Alberto Benini. Ma chi scrive vorrebbe aggiungere un ricordino personale, rendergli omaggio per la sua affabilità così in contrasto con la sua aria che di prim’acchito poteva apparire burbera.

C’è chi afferma che Miro fosse come il vento della Patagonia. Un alpinista e un uomo eccezionale. Si dice che avesse un carattere difficile come quelle pareti alla fine del mondo che sono state meta dei suoi viaggi e dei suoi sogni. La Patagonia forse era la sola terra che poteva accoglierne l’inquietudine. Tanto da divenire la sua casa dopo che Casimiro ha lasciato per sempre la sua Valsassina dove si occupava di una trafileria.
Una curiosità. Si è saputo che per anni c’è stata della ruggine tra Casimiro e il grande Riccardo Cassin dopo l’esperienza del ‘74 al Cerro Torre in cui, come capospedizione, Ferrari gli aveva anteposto nel formare la squadra un’altra gloria dell’alpinismo lecchese. E Cassin se l’era legata al dito. Ma un giorno, al campeggio dei Ragni nelle Dolomiti, Casimiro si trovò quasi casualmente a tu per tu con Riccardo. Senza rivangare e arzigogolare i due si misero subito d’accordo per una bella ascensione. Detto fatto, si legarono e la ruggine subito sparì. Per sempre.
“Chi era per me il Miro? Una persona stupenda. Non sto parlando dell’alpinista, ma dell’uomo, che è stato un grande, anche a prescindere dalle cose strepitose che a fatto in montagna”. Questa la testimonianza del trentino Ermanno Salvaterra, altro re della Patagonia.
“La prima volta che lo incontrai a El Chalten”, continua Salvaterra, “non sapevo chi fosse. Non ricordo bene di che cosa parlammo, di sicuro non di alpinismo, forse della nostra comune passione per la Patagonia, con i suoi infiniti spazi e la sua natura selvaggia. Rimasi affascinato da quell’incontro e solo più tardi scoprii che quello con cui avevo parlato era lo scalatore che aveva realizzato la prima salita della parete ovest del Cerro Torre, quella della est del Fitz Roy e infinite altre avventure estreme”.
Le parole di Salvaterra ricordano curiosamente quelle di Walter Bonatti, che, nella prefazione al libro “Casimiro Ferrari – L’ultimo re della Patagonia” di Benini, rievoca un incontro con Ferrari presso la sua estancia di Punta del Lago, ai piedi della Cordillera, e l’emozione con cui quest’ultimo gli mostrava un enorme cespo di lattuga, frutto del suo lavoro di agricoltore, esibito con lo stesso orgoglio con cui avrebbe potuto presentargli la relazione di una grande prima salita fra il granito e il ghiaccio delle vette australi.
Nel suo orticello in Valsassina, va ricordato che Miro possedeva anche un piccolo pollaio e ne era orgoglioso. Una domenica mattina chi scrive queste note salì da lui, a Ballabio, a intervistarlo. Al termine venne invitato a recarsi in gita sul Resegone. Non fu possibile: lo scrivente doveva tornare a Milano ad accudire la vecchia madre. Casimiro sparì per un attimo e tornò con un cestino di uova fresche. “Queste portale alla tua mamma”, disse.
Miro era nato il 18 giugno del 1940 a Rancio, uno dei rioni a monte della città di Lecco, ed era per molti aspetti un tipico esponente di quella classe operaia locale che nell’alpinismo trovava una sorta di realizzazione di sé. Per oltre un ventennio le montagne del Sud America erano state il suo regno e il teatro delle sue strepitose ascensioni. Citarne alcune è utile per comprendere l’impressionante durata della sua parabola alpinistica: il Monte Buckland nel 1966, lo Jirishanca nel 1969, la ovest del Cerro Torre nel 1974, l’Alpamayo (1975), la est del Fitz Roy (1976). Poi il pilastro nord est del Cerro Murallón nel 1984, quando già i medici avevano diagnosticato quel male che avrebbe dovuto concedergli solo pochi mesi di vita e con il quale, invece, lottò a lungo. (Ser)
