L’Ossola e le sue “bestiacce”

Paolo Crosa Lenz

Questa lezione di storia viene offerta dello scrittore e giornalista Paolo Crosa Lenz. Questa volta dopo essersi occupato nei suoi scritti dei riti di speranza che permeano la storia del contadino in montagna, di storiche calamità, di importanti libri dedicati alla “sua” Ossola e dei “trafurett” che con grandi sacrifici realizzarono il tunnel ferroviario del Sempione, Crosa Lenz propone ai lettori di MountCity il ritorno degli animali selvatici nelle valli dell’Ossola. Un argomento di stretta attualità che determina atteggiamenti di protesta e di sfida come dimostra la recente dimostrazione all’Alpe Devero contro la presentazione di un libro (un libro per ragazzi!) sul ritorno del lupo nelle valli ossolane.

Proprio così. Orsi, lupi, linci sono animali che non c’erano più e sono tornati. “Un ritorno naturale, simbolo di una società che migliora i suoi equilibri ecologici”, spiega qui Crosa Lenz che è stato presidente delle aree protette dell’Ossola. Non come il ritorno del cinghiale, porcastro disastrosamente immesso per meschini interessi ludici.

In calce poi qui trovate un breve estratto di un libro di Paolo Bologna, bellissimo e oggi forse introvabile. È del 1993 e si intitola Non solo pietre (nel 1978 il GAM di Mergozzo pubblicò il libro Ossola di pietra); è illustrato con splendide tavole di Giuliano Crivelli. Nel libro, Bologna ci ricorda, qualora ce ne fossimo dimenticati, che l’Ossola non è solo roccia e montagne, monumenti imponenti e palazzi signorili, ma anche animali, fiori, piante.

Giuvanin dul luv. L’alpe Mazzucchero è uno dei tanti nella valle dell’Arsa, sopra Pieve Vergonte, un vallone impervio coperto di boschi che permette di accede all’alta Val Strona o alla Val Segnara, in anzasca. La sua fama è legata all’uccisione dell’ultimo lupo (la “bestiaccia”) dell’Ossola ad opera di Giovanni Borghini di Pieve, che da allora rimase orgogliosamente Giuvanin dul luv grazie alla copertina de “La Domenica del Corriere” illustrata da Achille Beltrame. La vicenda è tornata emblematicamente in questi anni per il ritorno naturale del lupo sulle Alpi dell’Ossola, simbolo forte di rinati equilibri ecologici, e del feroce dibattito che ne è scaturito. Il periodico verbanese “La Gazzetta del lago” ne pubblica una cronaca che a noi oggi può far sorridere, ma è illuminante del sentire comune del tempo. La mattina del 14 gennaio 1927 Giovanni Borghini sale sul sentiero per Mazzucchero “con il fucile a tracolla, carico a mitraglia, per difendersi dalle bestiacce» ma, in un angolo della stalla, sta riposando il lupo.

La bestiaccia balza verso la porta della baita, contro l’importuno arrivato. Non spaventa soltanto; perché agisce. Ritta sulle zampe posteriori, assalisce il pastore, colle altre due zampe, agisce; il Borghini riporta, frattanto, con la lacerazione della camicia e della maglia, graffiature al petto, sotto il collo. Il fucile, perché a tracolla e perché la bestiaccia è a contatto, carne contro carne, è un oggetto, sul momento, ingombrante.

[l’uomo prende a randellate il lupo e scappa sul tetto dove gli spara]

La bestiaccia è a terra appena sotto il tetto, ma non vede più il pastore perché le schegge della mitraglia le hanno violato il muso e rotto le pupille». Altri tre colpi sul bersaglio ormai immobile e un rivolo di sangue arrossa la neve. Il lupo stringe i denti su un panno grigio: la fascia del pastore. Un ultimo respiro e il buio…

Pare un cane domestico, ma non è un cane; il colore è rossiccio, ad ondeggiamenti quasi neri, non molto dissimile dal colore del pelo dei domestici cani lupi; ma codesto pelo è irsuto, punto arricciato, alquanto più molle del soprabito del riccio spinoso ma alquanto più duro del pelo dei cani. È della spessezza di uno spillo di media dimensione. Grugno aguzzo, ma breve. Lungo da m 1.30 e 1.40; lingua spessa quasi un centimetro, coda tozza, di volume volpino. […]. Narrano gli anziani, che da diverse decine di anni, non si è notato la presenza di lupi nelle valli. Il soggetto potrebbe provenire, attraverso il Monte Rosa, dalla valle di Aosta, cacciato dal freddo, per avviarsi verso i colli di questo Lago Maggiore. Ovvero, provenire clandestinamente, e senza passaporto, in barba alle leggi fascistissime, dalla vicina Confederazione Svizzera. La bestiaccia è di sesso maschile.

La notizia corre di bocca in bocca e rimbalza sui giornali. Il lupo di Mazzuccher diventa “l’invasione di branchi di lupi nelle regioni dell’Ossola e del Cusio”. Sono passati novant’anni, ma sembra oggi. Così come l’accaparramento delle origini del lupo, quasi una rivendicazione di primogenitura. Anch’essa emblematica di come fatti storici o di cronaca, significativi per le comunità che li hanno vissuti, si trasformino nel tempo e sfumino in una memoria semplificata che, nel corso del tempo, diventa leggenda.   

Proprio sulle montagne di Forno, fece la sua apparizione l’ultimo lupo della valle, e delle valli vicine. All’alpe Campo, sul confine con i monti dell’Ossola, nell’inverno 1929-30. Un alpigiano di Forno, dopo l’inspiegabile uccisione di alcune pecore, trovò la belva nell’atto di insidiare un ennesimo gregge. Il tempo di armarsi, un lento e faticoso carosello all’inseguimento delle orme nella neve, infine due fucilate chiusero per sempre un’antica partita sanguinosa. Il coraggioso cacciatore si chiamava Giovanni Borghini. A Forno si racconta ancora la sua straordinaria avventura. L’inseguimento della belva durò 24 ore. Avvistatala al Campo verso 1’imbrunire, ridiscese al Forno per cercare le armi, ed un compagno. Salito di notte al Campo, alle prime luci dell’alba iniziò la lunga corsa nella neve, seguendo le tracce del lupo, di montagna in montagna. L’uccisione avvenne solo il pomeriggio, nei pressi dell’alpe Mazzuchero, sulle pendici del Pizzo Camino, ormai lontano da Forno, dove i due erano giunti esausti. (L. Cerutti, G. Melloni, E. Rizzi La Valle

M29: l’orso di Villadossola. La presenza dell’orso sui monti sopra Villadossola è un fatto straordinario. La polizia provinciale sta monitorando la situazione. L’ipotesi, per ora tale risulta, che l’esemplare possa essere M29, l’orso avvistato la scorsa estate in Ossola proveniente dalla Svizzera, dovrebbe essere tranquillizante in quanto è un individuo molto elusivo (per un anno nessuno l’ha visto) e in tre anni di permanenza in Vallese grossi danni non ne ha fatti. Dovrebbe anche essere un “orso anziano” in quanto la numerazione (M sta per maschio) è progressiva, quindi molto più vecchio di M49 catturato in Trentino. Sono, come sempre in natura, le femmine coi piccoli da proteggere a dare maggiori problemi.

Alla fine dell’inverno, usciti dal letargo, tutti gli animali hanno fame e gli orsi sono ghiotti di miele.  I tecnici mi spiegano che c’è anche una casualità in natura, ci sono individui più aggressivi ed altri meno. Come tra gli uomini. Certo, su una montagna deserta perché tutti siamo a casa, la presenza dell’orso risveglia istinti ancestrali e pone ancora una volta d’attualità il tema della convivenza tra l’uomo e gli animali selvatici e con esso quello del ritorno naturale dei grandi predatori (orso, lupo, lince).

Scriveva nel 1872 Giovanni Belli in una relazione tenuta all’adunanza annuale della Sezione di Domodossola del CAI tenutasi a Macugnaga:  “In quanto a fiere propriamente dette aggiungerò non esservene abitualmente in Macugnaga né in Valle Anzasca, ma che una lince fu uccisa al Morghen ed altra presso Anzino pochi anni or sono; che nel 1815 si uccise un orso nel territorio sopra Anzino da Filippo Cassietti, ed altro nel 1828 da Giuseppe Delgrosso nel territorio di Calasca, e che dicesi pure veduto in Macugnaga qualche lupo, ma attualmente si può assicurare che il territorio di Macugnaga e della Valle è libero da tali fiere. Fra i volatili si vede di rado l’avvoltoio degli agnelli (Lammergeyer)”.

Paolo Crosa Lenz

Re Lupo e il carnevale di Vogogna

Re Lupo

Re Lupo è anche il signore del carnevale di Vogogna che per la circostanza diventa per un giorno “il reame di Luponia”: seguito dai suoi lupacchiotti libera la più avve­nente fanciulla del paese rinchiusa nel Castello e la sposa in pompa magna davanti al popolo festante dell’antico nobile Borgo, già capitale della Bassa Ossola, e il pranzo di nozze vede il trionfo di un immenso risotto distribuito senza risparmio. Questa è una antica leggenda dalle incerte origini che ritornava puntualmente a carnevale, la rapida trasformazione della società degli ultimi decenni ne ha lasciato deboli tracce.

Il lupo vogognese — che campeggiava sullo stemma del Borgo, stretto dagli artigli di un’aquila — è uno dei quattro personaggi in pietra che ornano l’ingresso di villa Ravasenga a Vogogna, assieme al porco di Premosello, al gatto di Colloro e al cane di Cuzzago, tutti animali che danno il soprannome agli abitanti delle località.

Gran cacciatore di lupi nel secolo scorso fu l’anzaschino Carl’Antonio Zambonini detto “il Cerina”, di Bannio, che nel 1820 compilò un corposo manoscritto sulla cac­cia, che si diffonde in consigli su come tirare al lupo, al camoscio e all’orso, alla mar­motta e alla volpe, alla faina e all’ermellino, alla lepre bianca e ai volatili, non tralasciando un capitolo finale dedicato al modo migliore di mettere in pentola la selvaggina.

Il “Cerina” ci offre il quadro di un’Ossola a cavallo tra ‘700 e ‘800 ricca di selvatici da cacciare con arma da fuoco o con trappole. Anche i camosci si prendevano con lacci fatti con due fili di ferro tesi nei passi stretti delle piccole boscaglie.

“V’è in uso anche i ferri — scrive il Cerina — ma sono di troppo peso nel portarli e molte volte vengono rubbati”. Forse dagli alpigiani, perché, annota lo scrittore, non correva buon sangue tra cacciatori e pastori accusati di tendere trappole e ferri per catturare le marmotte, mentre era regola aurea accoppare questo abitante della monta­gna con una buona fucilata. Per martore, faine ed ermellini la cattura migliore era con la trappola, che a saperla tendere bene serve anche per lupo, volpe e orso. Di questo animale, simbolo araldico di Berlino e di Berna le nostre montagne conserva­no qualche toponimo come “Testa” o “balmo” dell’orso, o il più noto Barumboda cioè piano dell’orso, sulla montagna di Ornavasso che conserva tracce del vecchio dia­letto tedesco.

Anche la caccia a questo plantigrado veniva premiata: gli editti del 31 agosto 1807 e 25 luglio 1818 dell’Intendenza di Pallanza fissavano un premio di 500 lire nuove di Piemonte per una femmina, quattrocento un maschio, duecento un piccolo di orso.

L’af­fare era discreto, il signor Intendente pagava a semplice presentazione della sola testa, accompagnata da un certificato del Comune che dicesse che quell’orso era stato am­mazzato nel territorio comunale. Tutto il restante corpaccione si poteva vendere, anche se la carne non era molto pregiata e poteva causare “molti foruncoli o rogna”.

Ancor prima degli editti di Pallanza, nel 1709 lo stesso bando del Consiglio di Valle Anzasca che prometteva le 6 lire imperiali per un lupo tariffava una taglia di 48 lire — sempre imperiali — per un orso, 24 per un orsacchiotto. La pelle dell’orso, quello del­la invasione coi lupi del 1796, era pagata dai Consoli di Vigezzo 35 lire.

L’Intendente di Pallanza infine il 12 ago­sto 1828 autorizzava i sindaci di Varzo, Trasquera, Crevola, Montecrestese, Mozzio e Cravegna ad armare persone “probe e ca­paci” per una battuta collettiva “alla bestia feroce detto orso” che causava gravi danni agli alpeggi della zona.

Gli ultimi orsi della montagna ossolana vennero uccisi nei primi anni dell’800 pro­prio nella valle dello Zambonini, uno ad Anzino nel 1815 da Filippo Cassietti, un altro a Calasca nel 1828 da Giuseppe Del Grosso; non rimane traccia di come sia finita la battuta sugli alpeggi di Mozzio e Cravegna.

Il castello di Vogogna.

Nella vicina Svizzera l’addio all’orso arrivò più tardi, quando nel 1904 un cacciato­re dell’Engadina abbatté l’ultimo plantigrado. Che non era proprio l’ultimo se ancora nel 1923 venne avvistato qualche residuo anziano esemplare. Proprio dalla confinante Svizzera italiana si è affacciata qualche mese fa una proposta del Wwf che ha fatto su­bito discutere: perché non reintrodurre l’orso in valle Onsernone — che confina con l’ossolana valle Vigezzo — e da qui convincerlo a sistemarsi nella più ampia e disabita­ta val Grande tra Ossola e Verbano? In fondo, hanno sostenuto i promotori, qualche esemplare di orso bruno ha resistito a dispetto di tutti nel Parco Adamello — Trentino. Se riesce a vivere là, potrà campare anche tra Ticino e Ossola.

Sull’estinzione della lince le cronache venatorie denunciano un po’ di confusione. Questo animale, che assomiglia a un gatto ma gatto non è e dal micio abituale si diffe­renzia per la forma delle orecchie e per il peso che può toccare i 20 chili, negli ultimi anni è stato avvisato nel vicino Vallese. E, secondo alcune testimonianze, anche in località ossolane prossime al confine, val Bognanco e val Formazza. Forse anche a ridosso della frontiera ticinese tra Re e la Centovalli ticinese, dove chi si è trovato davanti men­tre andava per funghi un gattone fuori ordinanza, giurerebbe che di lince si trattava.

Così anche questo felino prezioso per l’equilibrio della catena biologica dei selvati­ci, potrebbe tornare da noi come sono tornati con disperazione di chi tiene ai propri orti cinghiali e cervo. Delle ultime linci abbattute in Ossola, una cadde sotto il tiro di schioppo di Antonio Bassi di Piedimulera proprio il dì del ferragosto 1894 a mezza co­sta tra l’alpe Filar e il Passo del Nuovo Weissthor sopra Macugnaga. Cinque anni più tardi sempre in valle Anzasca, un maschio di lince venne catturato ad Anzino da un certo De Lorenzo, verso gli anni Venti se ne uccise uno a Formazza e ancora nel 1937 Giovanni Orella di Anzino, tirò a un ultimo esemplare.

Paolo Bologna

da Non solo pietre Rizzardi, Domodossola, 1993

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