Quelle settimane più rosse che bianche

Molti di quelli che si lamentano per la chiusura degli impianti sciistici ricordano i passeggeri che pretendono di continuare a ballare mentre la nave affonda. È ormai noto e stra-noto che la variante inglese è più contagiosa di circa del 40% rispetto a quella a cui siamo abituati. E le varianti spingono i contagi. Il ministero studia il piano B: lockdown nei fine settimana. Questa situazione francamente angosciante non esclude che la mancata riapertura degli impianti, facendo definitivamente sfumare la stagione delle settimane bianche, sia stata una dolorosa mazzata. Ma non giustifica forse certe reazioni un po’ esorbitanti.

A Bardonecchia, in Val di Susa, hanno suonato le campane e abbassato le saracinesche dei negozi per protesta. Nella piana di Vigezzo, nel Verbano Cusio Ossola, che evidentemente continua a ritenersi una repubblica a parte, hanno tenuto aperti gli impianti per tre ore e appena 200 sciatori. Su molte piste circolano persone che avevano già prenotato: a Livigno taxi e pullman si sono mobilitati per farle sciare. A Cervinia chi se lo può permettere continua a usare l’elicottero.

“L’annullamento dell’apertura degli impianti sciistici è stato non solo una beffa ma anche un enorme danno economico per costi già sostenuti”, ha sostenuto Rinascimento Valle d’Aosta ribadendo che “lascia esterrefatti la modalità con cui il Governo, nella figura del Ministro Speranza, ha rettificato l’autorizzazione all’apertura degli impianti a fune e stazioni sciistiche”.

Pionieri dello sci a Madesimo all’inizio dell’altro secolo. In apertura un’immagine di Foppolo, cittadella delle settimane bianche.

“Sono allibito da questa decisione che giunge a poche ore dalla riapertura programmata”, ha annunciato in un comunicato il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio. Nel documento si accenna a possibili “vie legali contro questa decisione piovuta dal cielo senza alcun preavviso, e senza tenere in considerazione il lavoro della gente”. 

Sul Corriere della Sera del 16 febbraio, un titolo a tutta pagina fa riferimento a “richieste per 4,5 miliardi dallo sci”. Pioggia di miliardi annuncia infatti, sul fragile mondo delle settimane bianche, il ministro del turismo Garavaglia, già assessore regionale in Lombardia nella giunta Maroni, e spiega che “la montagna è stata dimenticata”. 

L’agonia in cui versa l’industria delle settimane bianche non è peraltro cosa recente, né si può attribuire per intero alla gravissima situazione sanitaria che ci attanaglia. La diagnosi non è facile né semplice, ma appare certo che si sono fin qui accettati modelli di sviluppo turistico superati, tipici degli anni settanta e ottanta del secolo scorso. 

Sono anni che commentatori illuminati battono su questo tasto, si veda il recente numero 107 uscito in novembre del newsmagazine  dell’associazione Dislivelli intitolato “Non di sola pista”. Sull’argomento è intervenuto Enrico Camanni mettendo a fuoco le non poche incongruenze di un sistema che il riscaldamento climatico e la crisi economica hanno totalmente incrinato. “E’ giustificato, in vista di queste anomale festività”, si chiede Camanni in clima prenatalizio, “il grido di dolore delle lobby dello sci e del turismo di massa per la forzata chiusura degli impianti? Non solo stonato, ma decisamente fuori misura”.

Era il marzo 2018 quando, tirando le somme, si scoprì che la stagione delle settimane bianche chiudeva in rosso. Sai la novità. Fu chiaro a tutti, e non solo quell’anno, che le società d’impianti in Lombardia erano in gran parte indebitate. “La Regione non può darci soltanto le briciole quando ricopre d’oro Monza per l’autodromo”, protestarono in Valtellina i seicento addetti agli impianti di risalita. Ma i nodi erano già venuti al pettine da tempo. Pur essendo il padre di quella celeberrima “valanga azzurra” dello sci che negli anni Settanta fornì nuove motivazioni agli appassionati di sci, il compianto Mario Cotelli non esitò nel 2015 al convegno sulle “Alpi in movimento” a cura della Convenzione delle Alpi a indicare nello sci il maggior problema del turismo in Valtellina dal punto di vista economico: si riferiva allo sviluppo per lui “insensato” di un’impiantistica sovradimensionata rispetto ai posti letto delle seconde case occupati per non più di cinque o sei giorni all’anno.

Dovunque nelle ski aree si rende da tempo necessario cercare nuove soluzioni per attirare i “non sciatori” sempre più numerosi. Non conta estendere e aggiornare gli impianti, gli esperti consigliano di puntare su qualsiasi iniziativa che porti a rendere fruibile in modo compatibile la “mountain experience” rendendola sempre più attraente. E qualcosa in effetti sta cambiando stando alle brochures turistiche e alle promozioni sul web.

 
Un modello di turismo invernale per molti da rivedere…

A dettare legge però sono sempre i sostenitori di una visione scicentrica, quelli che intendono “avvicinare le montagne” con l’appoggio delle istituzioni a suon di seggiovie e impianti per la neve artificiale. Incuranti che lo sci sia diventato, stando alle ricerche di marketing, un’attività cui si dedica solo il due per cento più ricco della popolazione europea. 

Un episodio va segnalato in controtendenza. Nel 2017 è stata fatta una petizione per salvare seggiovie e skilift di Passo Rolle, nelle Dolomiti dopo vent’anni di declino. In un piano presentato dall’azienda “La Sportiva” era previsto un restyling da tre milioni di euro smantellando gli impianti vecchi, utilizzati poco, male e che non rendono.

Peccato che gli strateghi della nuova cementificazione delle cime, nell’Ossola come nel Comelico, abbiano del turismo invernale una sola concezione: quella che riguarda le persone in coda sulla neve artificiale, distratte dal Wi Fi sugli impianti, tutti intruppati con quei bip elettronici al cancelletto e poi sotto con i ritmi ossessivi della musica techno e house sparata per gli inevitabili riti dell’aprés ski.

La Regione Lombardia non si è mai tirata indietro nel sostenere questo genere di turismo invernale. Nel gennaio 2016 annunciò di avere destinato una cifra cospicua per i comprensori sciistici come risulta dal bando pubblicato sul Bollettino ufficiale della Regione con il quale si stanziavano 5.240.000 euro per le migliorie agli impianti. Un’inezia, d’accordo, rispetto ai 32 miliardi ora promessi “alla montagna” dall’attuale ministro del turismo.

Montagna dimenticata? Il turismo invernale da tempo è sotto osservazione. Saliti alle stelle sono i costi degli skipass, per molti utenti ormai insostenibili, e sono cresciuti gli interventi pubblici per sanare i bilanci delle società che gestiscono gli impianti. Su quella che un tempo era definita una corsa all’oro bianco intervenne (era il 2015) il già citato magazine “Dislivelli” con un’inchiesta a tutto campo che mise in evidenza perdite (tante) e profitti (pochi o nulli) dell’industria dello sci.  

Un bagno di sangue venne addirittura definita la situazione. Tanto che l’economista e maestro di sci ah honorem Giorgio Daidola dichiarò: “Il modello del turismo invernale va rivisto, altrimenti si rischia di buttare via altri soldi pubblici”. 

Ma quanti euro ogni anno tutti noi, compresi quelli che di settimane bianche non vogliono nemmeno sentir parlare, dobbiamo sborsare per tenere in piedi un’industria in crisi, che senza correzioni non può avere futuro? “È la domanda”, spiegò Maurizio Dematteis, direttore di “Dislivelli”, “che ci siamo fatti in redazione. E abbiamo tentato, regione per regione, di capirci qualcosa di più, lanciandoci in una ‘caccia al dato’ che, alla faccia della trasparenza pubblica, non è stata per nulla semplice. Tra finanziamenti diretti, società a partecipazione pubblica, voci di finanziamento diverse erogate da enti diversi, siamo arrivati a una rappresentazione che, seppur disomogenea, riesce a dare l’idea dello sforzo economico che tutti noi affrontiamo ogni anno per tenere in piedi l’industria dello sci, aiutando le migliaia di persone che ci lavorano”.

Per quanto riguarda la Lombardia, sono censiti 1230 chilometri di piste da discesa, 300 impianti di risalita e 30 comprensori sciistici. “Una situazione difficile da esaminare”, commentò Luca Serenthà in un’inchiesta su “Dislivelli”. “Mi sono scontrato con un territorio e un campo vastissimi. Anche perché sono una quarantina le società che gestiscono gli impianti nella regione. Tra queste, diverse sono sostenute dal pubblico che interviene anche finanziando la costruzione degli impianti e l’innevamento artificiale. È il caso di società partecipate dalla Provincia, dalle Comunità Montane e/o dai Comuni di pertinenza”. 

Ogni anno di più, i comprensori a bassa quota si scontrano con l’aumento delle temperature, dando origine al noto circolo vizioso per cui si tampona l’assenza di neve accendendo i cannoni, i costi crescono esponenzialmente e le società chiudono l’anno in rosso. Foppolo, cittadella della neve nel cuore delle Alpi Bergamasche a pochi chilometri da Milano, passò un brutto momento nel 2017 quando la società che gestisce gli impianti di risalita dei Comuni di Foppolo, Carona e Valleve, chiese il fallimento. Poi è arrivato il covid a rompere le uova nel paniere.

Montagna dimenticata? Ci voleva un esecutivo a trazione nordista e l’aggravarsi dell’emergenza sanitaria perché si cercasse di correre tardivamente ai ripari a fronte del malessere di un mondo dello sci sempre più in crisi, sempre meno “a prova di futuro”. Alla ricerca, si spera, di nuove strategie che non consistano nell’irresponsabile avvicinare le montagne con nuovi impianti. (Ser)

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