L’immunologo contagiato dall’alpinismo
Quattro anni fa, quando MountCity segnalò che l’alpinismo era (ed è) la sua grande passione, il professor Alberto Mantovani, immunologo e oncologo, pur essendo notissimo nel mondo scientifico non poteva ancora del tutto definirsi un personaggio pubblico. Per lo meno, non lo era a quei tempi quanto lo è oggi in virtù dei suoi interventi sui teleschermi in cui mette a fuoco, con sapienza e pacatezza, alcuni aspetti salienti della pandemia che ci perseguita. Lo fa sempre, il professor Mantovani, con un sobrio sorriso, elargendo ragionevoli dosi di ottimismo. Come nell’intervista al quotidiano La Repubblica del 2 gennaio in cui ci conforta definendo l’inizio della campagna di vaccinazione come il segno di una rinascita collettiva.
Mercoledì 3 febbraio in un’intervista sul quotidiano La Stampa, ancora una volta il professor Mantovani si esprime con concretezza, questa volta sulle prospettive dei vaccini, specificando che “è presto per confrontare l’efficacia degli antidoti” e raccomandando investimenti ingenti per sconfiggere la pandemia ovunque nel mondo tenendo conto che “una volta ci volevano dieci anni perché un vaccino passasse dai Paesi ricchi a quelli poveri e oggi non potremo essere così immorali e miopi”.
Non sfuggì in quel 2016 che oggi appare tanto remoto il servizio che il supplemento letterario “Robinson” del quotidiano La Repubblica gli dedicò nel fascicolo dell’11 dicembre. Come risultava dalle ultime righe dell’intervista di Antonio Gnoli (corredata da un bel ritratto di Riccardo Magrelli), tra le priorità dello studioso oggi settantaduenne, padre di quattro figli, direttore scientifico di Humanitas Research Hospital di Rozzano (Milano), c’era e di sicuro c’è ancora ai primissimi posti l’alpinismo insieme con il calcio (è tifoso dell’Inter). Compatibilmente, s’intende, con i severi impegni legati al suo ruolo di capocordata in questa scalata dell’umanità che impegna tutti verso un futuro che ci si aspetta migliore o più accettabile una volta raggiunta l’immunità di gregge. “La cui stima approssimativa”, specifica il professore, “è del 70 per cento, poi dipenderà da eventuali varianti”.
“Ancora oggi”, raccontò il professor Mantovani nel 2016 a Repubblica, “faccio scalate in montagna con un amico, una guida sicura”. Alla domanda dell’intervistatore se si ritenesse un bravo alpinista, smorzò i toni con lo stile che gli è peculiare. “Un buon alpinista non lo sono”, precisò. “Ma la montagna mi ha insegnato che cosa significa affrontare una parete. C’è la capacità tecnica, c’è la forza di sopportare la fatica, c’è la consapevolezza di quello che puoi fare. Fino a che punto spingerti nel pericolo e quando tornare indietro. E c’è l’altro, l’amico, la guida, con cui decidi tutto questo. L’alpinismo, come la medicina, come la vita. E’ un fatto di onestà. Con te e gli altri”.
Sono concetti legati all’alpinismo, questi, che saranno stati chiari a suo tempo anche a un illustre collega del professor Mantovani “contagiato” dalla passione per le scalate. Anche il professor Vittorio Ronchetti (1874-1912), primario a Milano dell’Ospedale Maggiore, subì infatti, come si legge in questi giorni in “Fatti di Montagna”, le conseguenze di questo virus piuttosto diffuso e si coprì di gloria scalando diverse vette nel Caucaso da quel grande alpinista che fu.

Tra l’altro, il concetto di onestà, virtù richiesta a chi scala, è stato ripreso dal professor Mantovani il 23 dicembre 2020 nel supplemento “Salute” de La Repubblica. Questa volta indicando, come uno dei peggiori aspetti dell’ondata di coronavirus, certe notizie prive di fondamento scientifico incautamente diffuse. Ci vuole poco insomma a comprendere che se “l’ignoranza scientifica produce mostri”, come ha osservato il professore, “anche l’alpinismo se non praticato con metodo può condurre a rischi mortali”.
L’invito più volte ripetuto dal professor Mantovani è di non abbassare la guardia, oggi più che mai. “L’estate scorsa, arrivato in un rifugio”, ha raccontato il professore, “avevo una gran voglia di togliermi la mascherina ma non l’ho fatto. Avevo visto un cameriere senza. Si tratta di dare il buon esempio: è anche una questione di responsabilità sociale. Più di recente mia moglie voleva prendere una pizza con i nipoti e io le ho raccomandato: sì, però con attenzione”. (Ser)
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