L’uomo dei viaz entra nella leggenda
Aveva trasformato la sua passione di cacciatore e bracconiere in passione per l’alpinismo. A 88 anni Franco Miotto se n’è andato, contemplando fino agli ultimi giorni le sue amate montagne dalla finestra della sua camera nel Bellunese. Era definito l’uomo dei viàz (percorsi impegnativi, di grande respiro, delle Dolomiti bellunesi) come venne raccontato nel bellissimo libro della collana “Le tracce” diretta da Mirella Tenderini intitolato “La forza della natura” e scritto da Luisa Mandrino che su questo singolare alpinista realizzò anche un documentario per la trasmissione televisiva Geo & Geo.

Franco Miotto (1932-2020) con Bruno De Donà, altro protagonista dell’alpinismo nelle Dolomiti bellunesi (ph. Serafin/MountCity)
Miotto iniziò tardi ad arrampicare, dopo aver abbandonato la caccia al camoscio che lo aveva portato a percorrere sulle sue montagne sentieri invisibili audacissimi. Lungo quelle vecchie piste di caccia creò una rete di sentieri attrezzati, i viàz appunto. Audace, imprendibile bracconiere, appese il fucile al chiodo dopo una folgorante “conversione” alla vista di un gruppo di giovani camosci che rendono omaggio al re dei camosci da lui abbattuto. Trasferì così la sua passione alla scalata delle più dure pareti della zona divenendo un fortissimo arrampicatore.
La sua storia alpinistica iniziò negli anni che vanno dal 1973 al 1984 con alcune importanti imprese sulle pareti delle Alpi Orientali. La prima grande ascensione è sulla parete nord della Pala Alta, con compagni bellunesi, su cui apre una via di VI grado, dopo un difficile avvicinamento. Lo stesso inverno è la volta della prima invernale alla via italo-polacca alla Cima del Burel compiuta dal 2 al 6 marzo del 1974 in compagnia di Riccardo Bee. L’inverno successivo, sempre sul Burèl apre un nuovo itinerario di estrema difficoltà lungo una serie di diedri a sinistra della via italo-polacca della parete sud-ovest.
A queste due ascensioni seguono nuovi percorsi lungo le pareti delle cime della Schiara e della Palazza. Poi è la volta della parete occidentale del Pelmo, scalata dopo alcuni tentativi sempre con Riccardo Bee e con Giovanni Groaz. L’altra importante salita di Miotto e di Bee fu, nel 1978, la via diretta “dei bellunesi” alla parete nord-est del Pizzocco itinerario estremo di sesto grado con tre brevi tratti di arrampicata artificiale su una parete remota.
Nel 1979 la cordata Miotto-Bee si scioglie dopo le ultime due imprese della “diretta” alla Seconda Pala di San Lucano, compiuta in condizioni molto sfavorevoli, sotto continue scariche di pietre, e della “via dei bellunesi” al pilastro sud-ovest dello Spiz di Lagunaz, scalata dopo un lungo periodo di preparazione.
Nel 1980 Miotto scala nuovamente, con Benito Saviane, il pilastro sud-ovest del Burèl aprendo la “direttissima” con difficoltà di grado VI e A3. Tra il 1981 ed il 1982 Miotto e Saviane chiudono il ciclo delle grandi prime con le imprese più ardue della carriera sulla parete nord del Col Nudo aprendo 3 vie: la parete nord-est, il gran diedro nord all’anticima nord ed il gran diedro centrale sempre alla stessa, quest’ultima con il giovane Mauro Corona.
Per le sue importanti imprese alpinistiche su Burel, Pizzocco, Pale di San Lucano e Col Nudo, Miotto venne viene premiato con il “Pelmo d’Oro”. Era membro del Club Alpino Accademico Italiano (CAAI). La sua franchezza era proverbiale, e non la mandò a dire nemmeno nelle pagine del libro “Pareti del cielo” curato da Marco Conte e pubblicato da Nuovi Sentieri. Il volume fu al centro di una polemica innescata da una lettera a firma di Adriano Bee, fratello del compianto Riccardo, alpinista con cui Miotto fece molte scalate. Tra gli argomenti che divisero Bee dall’”uomo dei viaz”, va annoverata una diversa e contrapposta concezione dell’alpinismo solitario.
“Personalmente, sebbene ne avessi tutte le capacità”, spiegò Miotto, “non ho mai voluto praticare l’alpinismo solitario, che ho sempre giudicato una forma arrogante di presuntuosa ambizione: essa è inequivocabilmente il bagaglio culturale di una persona che denota immaturità e complessi. Mi riesce difficile credere che l’avventura solitaria su una parete sia intrapresa per il piacere della solitudine o la riservatezza di tenersi le cose per sé, quando poi ogni cosa finisce invece per essere pubblicata a titoli cubitali su giornali quotidiani e riviste specializzate”.
Parole sferzanti, specie se si considera che Riccardo Bee morì durante una solitaria invernale nel 1982 sulla parete nord del monte Agnèr. “Rimasi impietrito quando venni a saperlo”, raccontò Miotto. “Riccardo è stato abbandonato senza alcuna possibilità di aiuto, mentre una presenza amica avrebbe potuto essere preziosa per lui su una parete così repulsiva”. (Ser)

Con Riccado Bee, suo abituale compagno di cordata.
Miotto non aveva le capacità di Bee . Ecco perché non faceva le sue solitarie.