Argomenti. Poetica assurdità dell’alpinismo?

“La psicoanalisi che pratico come lavoro e alcune questioni filosofiche che mi coinvolgono mi sono diventate assai più chiare grazie all’alpinismo”, spiegò a MountCity il professor Andrea Bocchiola, accademico del Club Alpino Italiano, autore del saggio “Dell’alpinismo” pubblicato da Tararà (83 pagine, 10 euro, prefazione di Enrico Camanni). Nell’intervista pubblicata il 3 giugno 2020 in questo sito lo studioso definì “poetica e tragica l’assurdità dell’alpinismo”. E concluse affermando che se l’alpinismo servisse a qualcosa, vorrebbe dire che quel qualcosa è più importante dell’alpinismo. Che l’alpinismo è solo un mezzo. “E invece”, spiegò, “l’alpinismo è un grande esercizio di libertà dalla schiavitù dell’utile”. Sul saggio del professor Bocchiola e su alcuni temi trattati nell’intervista citata interviene ora Beppe Guzzeloni, istruttore di alpinismo del Club Alpino Italiano.

Un libro che fa discutere

Qualche tempo fa, riflettendo a seguito di una discussione tra amici sul perché si va in montagna, scrissi una sorta di poesia, scimmiottando la bella canzone di Gaber “Qualcuno era comunista” (Teatro Canzone 1992).

Scrissi così:

Qualcuno è alpinista perché suo padre non era negli alpini

Qualcuno è alpinista perché ha fatto la naja negli alpini, quindi …

Qualcuno è alpinista … “perché dopo si beve il barbera”

Qualcuno è alpinista perché un giorno lo hanno portato ad arrampicare e gli è piaciuto

Qualcuno è alpinista “perché nei rifugi si cucca

Qualcuno è alpinista perché vorrebbe essere considerato

e stimato.

Qualcuno è alpinista per dare un senso alle proprie frustrazioni

e per dare eco al proprio bisogno di risposte interiori

Qualcuno è alpinista … per cercare sé stesso … perdendosi in parete 

e incazzandosi che la via “non è logica e non c’è nemmeno un chiodo”

Qualcuno è alpinista perché la via è senza chiodi e … “però, come sono bravo”

Qualcuno è alpinista perché solo dopo tanti anni di salite scopre che è bello andare in montagna

Qualcuno è alpinista per guardare gli altri dall’alto con l’illusione di essere ammirato, non accorgendosi che gli altri guardano altrove

Qualcuno è alpinista perché “osa e sarai come un dio” … poverino …

Qualcuno è alpinista perché sa rinunciare alla vetta, senza sentirsi sconfitto, ma vivendo la rinuncia come un atto di umiltà e quindi una vittoria.

Qualcuno è alpinista perché si congratula con gli altri che ce l’hanno fatta…ma non è mica vero

Qualcuno è alpinista per toccare le più alte cime ed essere maggiormente vicino a Dio, dimenticandosi la vita degli altri

Qualcuno è alpinista perché ama la storia dell’alpinismo come storia di uomini e donne, sentendosi parte di essa

Qualcuno è alpinista perché vive la propria individualità nei silenzi delle creste e avvolto dalla verticalità delle pareti.

Qualcuno è alpinista perché prova stupore della creazione di ciò che lo circonda e vive del silenzio

Qualcuno è alpinista perché ama andare in cordata con un amico perché crede nell’amicizia

Qualcuno è alpinista perché ama la vita in tutte le sue dimensioni

Qualcuno è alpinista, anche se ha deciso di non esserlo più, perché porta con sé il ricordo e la nostalgia.

Qualcuno è alpinista perché si pone domande di fondo, magari bivaccando bisbigliando alle stelle

Qualcuno è alpinista perché un giorno ha scoperto che salire le montagne ha il valore aggiunto di non servire a niente, liberandosi dalla logica di mercato che chiede contropartite al rischio.

Qualcuno è alpinista perché vuole andare in direzione contraria al “buon senso e dell’ovvio” sfidando la gravità con lo sguardo rivolto ad un futuro sostenibile per le Terre alte, sporcandosi le mani.

Qualcuno è alpinista perché ha un sogno, perché sa che si muore quando non si chiede più. Il verbo della vita è chiedere, avere una domanda, lanciare il punto interrogativo verso l’alto … salire in cima alla propria esistenza.


“L’alpinismo, come emerge dalla mia comprensione della ricchezza e complessità del libro di Bocchiola”, osserva Beppe Guzzeloni, “è inteso come passione insostenibile che esilia il soggetto da se stesso e dal mondo, attività assurda, poetica e tragica, ma grande esercizio di libertà dalla schiavitù dell’utile…”. Qui sopra la copertina del libro di Andrea Bocchiola la cui lettura ha ispirato l’autore di questo articolo. Nell’immagine in apertura la via G. Rossa alla Rognosa di Etiache (ph. B. Guzzeloni)

Sono andato a ripescare queste righe sollecitato dalla lettura del bel libro di Andrea Bocchiola (“Dell’Alpinismo” ed. Tararà), autore e libro conosciuti grazie ad un’intervista apparsa su Mount City in giugno. In questa intervista mi colpì, tra le altre cose, lo scetticismo dell’autore, psicoanalista, filosofo e membro CAAI, nei riguardi della montagnaterapia, tematica di cui da qualche anno mi occupo, e sulle motivazioni sottostanti la pratica alpinistica di ieri e di oggi. Il suo scetticismo, però, alimentava il mio che da un po’ di tempo cresce ponendosi domande, tentando risposte.

Non ho nessuna capacità né velleità di recensire il libro (mai terminato di leggere anche se ho affrontato tutti gli otto capitoli più volte), ma la sua lettura mi ha stimolato riflessioni confuse, innalzato dubbi, messo in discussione certezze, lasciato spiazzato, tagliato come burro. Buttato al muro con una domanda di fondo: ma cos’è l’alpinismo? cosa vuol dire essere alpinisti? Quale motivazione spinge un individuo a scalare montagne, rischiando anche la vita? Quale passione può travolgere una persona?

Capitolo dopo capitolo mi sono calato lentamente nel testo cercando di capire, comprendere i nessi, i ragionamenti complessi, i salti culturali con i suoi riferimenti ad autori diversi, le apparenze, le visioni, i tuffi nella hybris (tracotanza e abisso), passaggi estremi, esposti in una verticalità assoluta che mi allontanavano, mi tagliavano da me stesso, dal mio essere modesto alpinista. Il mio alpinismo, la sua concezione e motivazione, non si conciliavano, almeno sembrava, con quanto l’autore esprimeva.

Arrivarono le vacanze con i progetti di dare continuità a salite e arrampicate, voglia di montagna vissuta. Lasciai il libro sulla scrivania. Chiuso, ma era aperto. Il discorso era ancora aperto. Il libro mi aspettava, non solo per essere ancora letto, ma perché voleva leggermi, conoscermi. Voleva incontrarmi e da quell’incontro distanziarsi dal suo autore per cercare la propria strada, il proprio significato nell’incontro con me (e incontrando altri a cui ne ho consigliato la lettura).

Al mio ritorno a casa, con nello zaino soddisfacenti salite alpinistiche, il libro si propose, si presentò seduttivo al mio sguardo mentre sbirciava la copertina: dell’alpinismo. Il titolo del libro era il luogo dell’appuntamento, un incontro carico di aspettative e curiosità, deciso a spingere il pensiero in luoghi aspri, disabitati, che pure erano quelli, e sono, che io sentivo più vicini. Come un novello Ulisse mi gettati allo sbaraglio nella mia Odissea di ricerca senza pensare al ritorno a casa.

Non so se è stato un incontro che mi ha trasformato, ma sicuramente è stato un evento (la lettura reciproca) che ha modificato i presupposti razionali del mio alpinismo, interpretando il testo del libro che lo ha reso diverso da quello che pensavo che fosse. In questo senso ho subìto un taglio, una frattura nel dialogo con la mia vita alpinistica.

L’incontro con il libro ha portato con sé un qualcosa di indecifrabile che travalica la comprensione cognitiva del testo. Ma è subentrato qualcosa di più spaesante. Non sono io che leggo il libro, ma è lui che mi legge. Io non ho assorbito il libro, è lui che ha bevuto me. Porto su di me le tracce di questo incontro, di tale evento. La lettura del libro di Bocchiola mi ha dato l’opportunità di sentirmi letto mentre leggevo e rileggevo, interrogato mentre cercavo di comprendere, accolto mentre dialogavo con il testo. La lettura del libro che mi legge ha avviato l’incontro con l’autore e con la differenziazione soggettivante da lui che mi ha arricchito con l’esposizione delle sue idee (e della sua pratica alpinistica). Ciascuno di noi è fatto degli incontri sempre unici, contingenti, irripetibili con le “parole” dell’altro che colpiscono la sua vita.

Qualcosa di me il libro ha fatto affiorare in superficie su cui galleggia la mia pratica alpinista che non è finalizzata certamente alla conoscenza di me, dei miei limiti né esterni, rivolti al mondo, né interni, che non mira alla trasformazione della persona né tantomeno ha scopi terapeutici. Non si va in montagna perché si è nevrotici e per “essere guariti”, ma perché le montagne esistono e ci attraggono.

L’alpinismo, come emerge dalla mia comprensione della ricchezza e complessità del libro, è inteso come passione insostenibile che esilia il soggetto da sé stesso e dal mondo, attività assurda, poetica e tragica, ma risulta essere un grande esercizio di libertà dalla schiavitù dell’utile (vedi “I conquistatori dell’inutile” di L. Terray).

L’alpinismo come emancipazione dello spazio alpino dal mondo sovrannaturale, mitologico e religioso, esplorazione “incantata” fine a sé stessa che ha il proprio significato nel suo accadere e riaccadere. In una ripetizione ossessiva e assurda dell’esperienza senza venirne mai fuori completamente. L’alpinismo inventa la montagna come spazio e luogo estremo, ossia frequentabile ma esposto.

L’esplodere della montagna nello sguardo dell’alpinista pone la montagna infinitamente a distanza (provocazione); e quella stessa esplosione rinvia montagna e sguardo a una coappartenenza fondamentale tra senziente e sentito, aggiunge l’autore, per dire che il soggetto è avvolto dal mondo e il mondo attraversa il soggetto (incatenamento). Il segreto dell’alpinismo sta nel saldarsi tra l’esibizione della montagna e lo sguardo dell’alpinista. Attrazione fatale, erotica, quasi simbiotica, senza mai raggiungere il fine (vetta o salita) che inchioda l’alpinista alla ripetizione infinita del suo gesto (vedi il libro di W.Polidori “Quando arrivi in cima, continua a salire”).

La lontananza e l’esposizione sono le due dimensioni, tecniche, umane e ambientali, della pratica alpinistica. Sogno e esistenza. Nel sonno la coscienza si addormenta, nel sogno l’esistenza è desta, così l’autore cita Foucault, per affermare che l’impegno alpinistico (verticalità, difficoltà tecniche, ambiente severo e selvaggio) per essere espresso pienamente deve entrare nella dimensione onirica, di piena concentrazione e di simbiosi con la montagna. La sicurezza dell’alpinista, aggiunge Bocchiola, dipende dal grado di assorbimento dell’alpinista nella soglia della propria pratica e nell’espressione della tecnica alpinistica intesa non come addomesticamento della montagna, ma come ulteriore mettersi sul ciglio di un mondo esposto e che espone in modo radicale.

Il senso dell’alpinismo è nella montagna stessa non nell’alpinista. Una salita è costruita su degli insiemi di relazioni, fatta di ramponi che grattano il ghiaccio, dal freddo che taglia le mani, dal vento che spazza la cresta, dalla mano che s’immedesima nell’appiglio, dal piede che s’appoggia nella spinta verso l’alto. Una salita, come Bocchiola sottolinea, non è fatta da altro che da questo inoltrarsi senza logos e senza rappresentazione di uomo e di mondo.

Non c’è una logica della motivazione alpinistica se non in forma di lieve brezza che inganna sulla conoscenza di una spinta profonda e perturbante che precipita dentro e fuori di noi. Perché si va in montagna? Perché le montagne sono là, semplicemente (G.Mallory). Le montagne, come scrive Bocchiola, si esibiscono e questo loro esibirsi è provocante, costituisce un’istigazione per il soggetto che è un incantamento e un incatenamento con implicazioni passionali e dimensione panica dell’alpinismo: sentirsi pienamente parte in una percezione e concezione molto profonda dell’ambiente alpino e alpinistico la cui tutela, salvaguardia e protezione deve diventare anch’essa pratica inderogabile dell’alpinista. L’alpinismo ha senso a partire dalle montagne, non a partire dagli uomini e dalle donne, ma solo se tra uomo e montagna, nel loro mutuo mettersi insieme, può essere superata quella scissione tra natura, come evento di provenienza, e cultura, come evento di destinazione in un unico avvolgimento e coinvolgimento.

Il libro è pieno di suggestioni, spunti, stimoli provocanti e mi auguro che il libro venga letto da molti e che questi molti si facciano leggere da lui. Nel massimo dell’apertura.

Vorrei solo aggiungere un’ultimissima riflessione che riguarda la lontananza dal mondo, requisito per concentrarsi nella pratica alpinistica. La lontananza non deve diventare allontanamento dal mondo, non deve rischiare di tramutarsi in una sorta di distanziamento sociale o di fuga dal mondo. L’alpinismo è del mondo e deve essere per il mondo. E qui ricordo il bell’articolo di Gianpiero Motti “I Falliti” e il dialogo tra lui e Guido Rossa il quale “fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo…” ( E.Camanni “Nuovi Mattini” ed Vivalda).

E qui, concludo, torno al mio scritto di qualche tempo fa, all’inizio menzionato: qualcuno è alpinista perché ha un sogno, perché sa che si muore quando non si chiede più. Il verbo della vita è chiedere, avere una domanda, lanciare il punto interrogativo verso l’alto … salire in cima alla propria esistenza.

Beppe Guzzeloni


“Per essere espresso pienamente, l’alpinismo deve entrare nella dimensione onirica, di piena concentrazione e di simbiosi con la montagna”. Qui l’autore di questo scritto è impegnato sulle rocce Catinaccio (ph. B. Guzzeloni)

Commenta la notizia.