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“Dell’alpinismo” / Dieci domande a Bocchiola

Come è stato riferito in MountCity, il professor Andrea Bocchiola, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e membro del Club Alpino Accademico Italiano, ha compiuto una scalata importante. Questa volta su montagne di carta in sintonia con la sua personale ricerca alpinistica sulle montagne, quelle vere. In che modo? Mettendo a frutto la sua preparazione di filosofo e la sua dimestichezza con vette e pareti, è riuscito a entrare nella mente talvolta imperscrutabile degli alpinisti. Nel suo libro fresco di stampa (Dell’alpinismo, Tararà, 83 pagine, 10 euro) vengono così esaminati negli otto capitoli di cui si compone una notevole quantità di aspetti salienti dell’alpinismo di ieri, di oggi e forse di domani. Qui Bocchiola risponde alle dieci domande che MountCity gli ha sottoposto. Particolare curioso. La psicoanalisi che il nostro gentile interlocutore pratica come lavoro e, insieme, alcune questioni filosofiche che lo coinvolgono gli sono diventate assai più chiare grazie all’alpinismo. Questo aspetto lo ammette volentieri il professor Bocchiola. Conquistatore dell’inutile? Forse. Eppure non può che riconoscere e apprezzare l’assoluta assurdità “così poetica e tragica” dell’alpinismo…

L’intervista

1) Nel libro viene dato per scontato salvo errori, che l’alpinismo sin dalla sua origine contrae un rapporto organico con il “freddo e sottile sguardo scientifico” di Horace-Benedict de Saussure, suo padre simbolico. In che senso poi l’alpinismo “inventa il proprio luogo ‘estraniando’ la montagna dalla scienza e dal mito”?

L’alpinismo ha il suo simbolico atto di nascita nella prima salita al Monte Bianco, ad opera di Balmat e Paccard, per conto dell’uomo di scienza Horace Benedict de Saussure. Questa prima salita nasce insomma all’interno del progetto di ricerca de saussuriano. Il rapporto organico con il freddo e sottile sguardo scientifico è innanzitutto una filiazione dell’alpinismo dalla impresa scientifica, che è insieme una emancipazione dello spazio alpino dal mondo sovrannaturale, mitologico e religioso che lo dominava. E tuttavia già in questa prima salita comincia a emergere qualcosa di inusitato e comunque incongruente con lo sguardo scientifico esplorativo. Mi riferisco al fatto che nella esplorazione della montagna, esplorazione che comincia con l’essere scientifica, una esplorazione di natura diversa comincia a prendere corpo. Non bisogna confondere le due cose. Come membro del Club Alpino Accademico, so bene quanto sia importante la dimensione esplorativa in alpinismo. Ma questa esplorazione non ha la natura della esplorazione scientifica, non ne rispetta il canone, o meglio, quel canone gli è indifferente. Si tratta piuttosto di una esplorazione “incantata”, direi quasi bambina (che non significa affatto infantile), di una esplorazione fine a se stessa che esaurisce il proprio senso all’interno del suo accadere (mentre l’esplorazione scientifica è concentrata sull’esito “conoscitivo”), che è più simile all’avventura di un bambino che esplora, per la prima volta in autonomia, gli anfratti più nascosti del giardino di casa. In questo senso l’alpinismo inventa il proprio luogo emancipando le montagne da quell’interesse scientifico che pure gli ha dato i natali e che pure gli ha permesso, avendo estromesso gli dei dalle cime, di esercitarsi su di esse.

2) Nel 1863 il Club alpino italiano nasce con lo scopo di far conoscere la montagna con un taglio scientifico-cultural-naturalistico. Risulta che a un certo punto, e oggi in particolare, l’alpinismo abbia cessato di venire inteso come prova di conoscenza?

Le attività del CAI e i suoi scopi non esauriscono, per fortuna direi, l’ambito della vita alpinistica, che di per sé non è una pratica di conoscenza, né esterna, ossia del mondo, né interna, ossia del soggetto. Non si pratica l’alpinismo a scopi conoscitivi e non lo si pratica a scopo terapeutico, come se fosse uno psicodramma (al riguardo, da alpinista e da psicoanalista, non credo che abbia alcun senso parlare di montagna terapia, il che non significa che la montagna non faccia star bene, ma non ha nulla a che fare con la terapia). La stessa pretesa di una capacità conoscitiva dell’alpinismo ne contraddice la pratica, subordinandola ad un esito che non la riguarda. E’ come quando si va a teatro a vedere uno spettacolo per cogliere “un messaggio”. Lo spettacolo o vale per se stesso o se vale per il messaggio allora non conta nulla, perché si finisce con il “leggerlo”, abbandonando alla irrilevanza ciò che si mostra sulla scena.

3) Annibale Salsa dà comunque per scontato che l’alpinismo richieda una conoscenza anche di tipo scientifico, e anche una certa sensibilità, altrimenti diventa palestrismo che è un’altra cosa. Stanno così le cose alla luce della sua esperienza di alpinista?

Non conosco l’affermazione di Salsa e forse non mi è chiaro cosa significhi, di certo, espressa così non mi trova troppo d’accordo. Certamente l’alpinismo richiede una serie di nozioni e di conoscenze, ma di sicuro possederle non mi fa scalare meglio e non mi salva necessariamente la vita in parete. Il saperci fare alpinistico ha poco a che fare con la conoscenza accademica, riguarda un sentire più profondo e “singolare” (nel senso epistemologico della parola), riguarda un certo modo di stare rispetto alla montagna e poco altro. Poi ci sarebbe da riflettere su quanto poco questo “modo di stare” abbia a che fare con la psicologia e con il mondo psicologico dell’alpinista, a sua volta, come nel libro cerco di mostrare, del tutto irrilevante per pensare la pratica alpinisti della montagna. Quanto al palestrismo, che intuisco essere dizione dispregiativa, questo è un rischio che riguarda tanto chi pratica la sola falesia quanto chi pratica il solo alpinismo. Mi sembra qualifichi l’atteggiamento di chi si avvicina alla arrampicata come il body builder che va in palestra per ammirarsi allo specchio mentre solleva i pesi. Qualcosa che ha più a che fare con l’onanismo che con la montagna.

4) Nel libro viene spiegato che gli alpinisti scrivono in continuazione, dalle relazioni tecniche ai récit des courses, dalle guide di arrampicata o di alpinismo, fino ai racconti di vita intessuti di cronaca alpinistica. Da che cosa può dipendere questo atteggiamento se non dalla sete di conoscenza e dal fatto che l’alpinismo non è uno sport qualsiasi?

Sicuramente l’alpinismo non è uno sport qualsiasi, e non per il grado di pericolo, più o meno reale o più o meno immaginario, che comporta. In fondo il ciclismo è assai più minaccioso per la nostra incolumità, che il cascatismo. Non è uno sport come gli altri per il rapporto intimo che contrae con la dimensione dell’ “aperto”, con l’esposizione al mondo che comporta, con la sperequazione tra misura umana e dimensioni della montagna. Ecco, al fondo, penso che gli alpinisti non possano non scrivere per il bisogno di tornare su questa sperequazione e ritrovare una misura umana all’esperienza che in montagna hanno vissuto. Non certo per sete di conoscenza, che poi non sapremmo neanche bene definire o ritrovare. Questa è, per me, la ragione profonda per cui la letteratura di montagna rimane una letteratura secondaria dal punto di vista letterario. Non perché manchino alpinisti scrittori anche bravi, ma perché la scrittura alpinistica non rende conto solo a se stessa, ma a una ferita da sanare, a una necessità, come dire, sintomatica, che ne mozza il respiro.

Andrea Bocchiola, psicoanalista e filosofo, è qui impegnato sull’Aiguille des Pélerins lungo la via “Beyond god and evil”. In apertura si gode la vita al Bivacco Belloni sul Piccolo Fillar.

5) Sempre nel libro l’alpinismo viene definito “una passione insostenibile che esilia l’alpinista da se stesso prima ancora che dal mondo”. E’ forse vero, come alcuni sostengono, che la salita a una vetta è un processo ascetico che comporta una completa concentrazione, una costanza assoluta?

L’alpinismo estremo, come pure l’arrampicata estrema hanno secondo me queste caratteristiche “ascetiche”, sebbene si tratti di un ascetismo laico che non ha altra mira da se stesso e che si dissolve all’interrompersi della azione. Si tratta di un ascetismo vuoto dunque, che non mira a nessuna trasformazione della persona. Non c’è illuminazione, insight, miglioramento della persona alla fine della ascesi alpinistica. Possiamo anche crederlo, anzi, è molto comune pensarlo, ma la gente non cambia e non migliora perché va in montagna. L’ascesi alpinistica è funzionale, è il medium attraverso il quale l’alpinismo estremo è possibile e muore con l’esaurirsi della azione. A valle l’alpinista asceta torna a essere la persona che era, prima di partire per l’Alpe!

6) Secondo Massimo Cacciari. un faticoso esercizio è ascendere un monte, ma altrettanto faticoso è sviluppare problemi fondamentali che probabilmente non avranno mai una risposta banale. Quale è stato l’aspetto più faticoso nella stesura di questo libro sull’alpinismo?

Sviluppare problemi fondamentali significa non avere l’urgenza e la necessità della risposta. E’ un esercizio di grande libertà ed emancipazione del pensiero. Ascendere un monte significa, per un alpinista, consegnarsi a una ripetizione fine a se stessa: dopo una parete, un’altra; dopo una cima, un’altra ancora. Si ridiscende a valle solo per ripartire. La cima è secondaria alla ripetizione un po’ demoniaca che affligge alpinisti e arrampicatori. In questo senso la retorica del Nuovo Mattino intorno alla superfluità della cima, corretta dal punto di vista della storia dell’alpinismo, rivela comunque una certa ingenuità. Cima o non cima, la questione è la ripetizione. Sennonché nella ripetizione troviamo i germi di una emancipazione ancora più profonda dalla pretesa di andare o di arrivare da qualche parte, sia essa conoscitiva, materiale, personale e via dicendo. Pensare filosoficamente e andare in montagna richiedono entrambi la rinuncia all’ “approdo”. Tolta questa pretesa di “approdare”, scrivere questo libro per me non è stato faticoso. E’ accaduto in un momento per me abbastanza gioioso, di ormai molti anni fa, durante il quale scrivere era una danza che si faceva da sé e nel quale il mio solo interesse era provare ad abitare, con il pensiero questa volta, l’avventura dell’alpinismo. Non a caso i primi sei capitoli rispecchiano il percorso di una salita, dall’avvicinamento al momento in cui, tornati a casa, si raccoglie l’esperienza fatta in un qualche tipo di scrittura.

7) La parola amore ricorre nel libro dove si spiega che, innamorato della montagna, l’alpinista ne patisce l’incanto. Anzi per usare le sue parole, professor Bocchiola, viene “medusato” da uno sguardo incatenante…Nell’attuale proliferare delle attività outdoor, in apparenza aride e tecnologiche, è ancora possibile anzi palpabile questo incanto?

A dire il vero non lo credo. Qui recupererei il palestrismo di cui parla Salsa. Sono attività senza spessore e profondità, figlie di un brodo culturale in cui si vuole l’esperienza senza la profondità che gli compete e che la qualifica. E’ il problema della differenza tra l’erotismo e il porno. Nell’erotismo occorre mostrare la complessità e la profondità di un incontro. Nel porno questa complessità è scotomizzata, conta solo mostrare l’atto. Temo che vi sia troppa gente in giro per le montagne per la quale conta solo l’atto.

8) Secondo il filosofo Francesco Tomatis la conquista della vetta non è di fatto una conquista, ma un’esperienza del vuoto che è stato in noi, della necessità di riconvertirci al mondo, di ridiscendere. E’ una sensazione o una realtà che lei condivide?

La condivido completamente, a patto di intendere in senso laico questa esperienza. In fondo, giunti in cima, quello che si presenta all’alpinista è il nulla della vetta e la necessità della ripetizione: un’altra cima, un’altra parete, un altra lunghezza di arrampicata. La riconversione al mondo che la pratica alpinista impone non è mai definitiva. Anzi è transitoria, effimera, occasionale, almeno nella misura in cui è necessaria alla realizzazione della salita. Poi ritengo che queste osservazioni valgano innanzitutto per l’alpinismo estremo o per quei momenti della pratica alpinistica in cui non c’è spazio per la riflessione e il pensiero, quando la concentrazione deve essere assoluta, il che vuol dire anche ab-soluta, slegata da ogni altra esigenza e necessità se non il dispiegarsi del gesto che mi porta all’appiglio successivo.

 9) Concorda con Massimo Mila quando sostiene che l’alpinismo riesce a conciliare la ragione pratica con la ragione teoretica ed è una forma di conoscenza che si realizza attraverso il fare?

Il problema sta nell’idea di conoscenza. Se si tratta di una conoscenza “positiva”, di un poter dire “è questo”, non sono d’accordo, come già ho detto. Ma esiste anche una conoscenza negativa, che è quella che si realizza nell’ascesi, almeno nei termini cui abbiamo accennato sopra. Ecco, da quella ascesi possono poi derivare, nel tempo, negli anni, molte e importanti scoperte per l’alpinista che l’ha vissuta. Ma si tratta di un processo che non riguarda la pratica della montagna, ma la fatica della sua elaborazione da parte dell’alpinista, e il fatto che quella pratica ci rende, a volte, più capaci di comprendere, di illuminare alle pratiche nelle quali siamo immersi. Qui posso parlare solo per me stesso, ma di certo la psicoanalisi che pratico come lavoro e alcune questioni filosofiche che mi coinvolgono, mi sono diventate assai più chiare grazie all’alpinismo. O meglio, grazie alla scrittura di questo libro, al punto che forse non saprei dire se, nello scriverlo, il punto di abbrivio sia stato l’alpinismo o la filosofia.

10) L’alpinismo è una pratica rischiosa, irragionevole e per molti versi assurda come sostiene Enrico Camanni nella prefazione? C’è forse qualcosa di assurdo nell’allenarsi utilmente, nell’abituarsi all’improvviso emergere del pericolo, nel cercare di conoscere i propri limiti?

L’amico Enrico ha ragione. Ma questa assoluta assurdità dell’alpinismo non è quello che la rende così profondamente poetica e tragica? E’ un po’ quello che cercavo di dire poco fa. Se l’alpinismo servisse a qualcosa, vorrebbe dire che quel qualcosa è più importante dell’alpinismo. Che l’alpinismo è solo un mezzo. E invece io penso che l’alpinismo sia un grande esercizio di libertà dalla schiavitù dell’utile. In fondo, scusate, quale sarebbe l’utilità dell’utile?

Ser

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