Lezioni di storia. Quando la Toce portò la morte

Paolo Crosa Lenz, uno dei maggiori storici dell’Ossola e delle sue valli, direttore del periodico “Il Rosa”, scrittore e autore di guide della sua terra, ha raccolto per le scuole dei materiali storici locali che gli insegnanti utilizzano nella didattica. Cortesemente ha fatto avere a MountCity una parte di queste sue ricerche ricomprese sotto il titolo “La scuola al tempo del coronavirus”, dando facoltà alla redazione di utilizzarle. Occorre ringraziare l’amico Crosa Lenz anche a nome dei nostri lettori che sapranno apprezzare questo suo importante contributo sulla gente e le usanze di un’area alpina di cui è noto il grande valore culturale, naturale e paesaggistico. Per evidenti ragioni di attualità legate alla pandemia che ci affligge, iniziamo dalle lezioni dedicate alla peste nel XIV-XVII secolo. Altre lezioni seguiranno.

L’amico storico Enrico Rizzi ha pubblicato nel 2018 un libro straordinario, frutto di ricerche decennali ma che ora si rivela di stringente attualità: Memorie di fame, carestie e peste nell’Ossola. XIV – XVII secolo (Grossi, Domodossola, 2018). Da esso, estraggo alcuni materiali ad uso esclusivamente didattico che potranno essere utilizzati a futura memoria (e, auguriamoci, a futura docenza). In accordo con Enrico Rizzi li offriamo alla scuola italiana nella convinzione che, sempre, la cultura storica è fonte di insegnamento e lezione per il futuro. Se ritenete utile, potete diffondere i materiali nella rete della “scuola buona” alla quale apparteniamo tutti con orgoglio.

Paolo Crosa Lenz

Ornavasso, 25 marzo 2020

  • Carestia 1572-73; peste “di San Carlo” 1576-1585

Li famelici correvano a turba nei prati cercando erba e radici per satollar­si; altri raccoglievano per le vie i frutti già putrefatti, le robe gettate ai cani, le carni infracidite e tutto mancavansi: a quando a quando le merci poste in vendita sul mercato andavano depredate, le ossa degli animali ridotte in farina erano pasto favorito agli uomini. Vi furono madri che (orribile a dirsi!) mosse da atroce appetito spinsero il dente alle carni di pargolo fi­glioletto. Così si miravano innovarsi le orridezze serbate un tempo alla città deicida; e così per tanta carestia mal nutriti, e mal curati li corpi umani, si predisponevano ai malori, alle mortifere febbri, alla distruggitrice pestilen­za. Monumenti del terribile flagello si veggono anche al dì d’oggi le chiese innalzate a San Rocco per le regioni dell’agro ossolano”. Per quasi un decennio il terribile contagio gira “sventolando il suo lu­gubre stendardo spiegato all’insegna di pallidezza nel viso di ciascuno, e senza alcun riguardo la tagliente falce crudelmente vibrando, le centinaia ogni giorno n’atterra. (M. de Domi, 1609).

  • Ricordatevi delle carestie

Ricordatevi delle carestie di vettovaglie, delle morti, delle carrozze fune­ste, de’ spettacoli spaventosi, dei lamenti, dei gridi, delle vedove, pupil­li, orfani, e dei pianti loro, che durarono tanti mesi. Ricordatevi come le botteghe erano chiuse, i commerci banditi da ogni parte, la fuga dei cittadini, l’ozio delli artigiani, la solitudine delle chiese, la mestizia del­le contrade, l’abbandono delle case, la sfrenata licenza dei monatti, gli stupri dei lazzaretti, lo stupore di tutti, le menti confuse, i rimorsi delle coscienze… (Lettera di San Carlo ai Milanesi)

  • “Violano sistematicamente”

Nel 1581, quando i valichi vengono chiusi dalle autorità vallesane per il pericolo della peste, i someggiatori di Antigorio e Formazza violano sistematicamente il divieto delle autorità, continuando a condurre setti­manalmente le loro some di vino fino alla valle dell’Hasli, come hanno sempre fatto. Nel 1583, il 20 gennaio, le autorità milanesi riaprono il Sempione, dopo mesi di chiusura del passo per l’epidemia che serpeggia nel Vallese. (Enrico Rizzi Memorie … 2018)

  • Cimamulera, settembre 1585

La peste del 1585 non arriva dalle montagne, ma dal lago, risalendo le acque della Toce sui barconi che portano al porto della Masone, tra Vogogna e Piedimulera, le granaglie della pianura, sempre più scarse in anni di carestia. Al porto, gestito dalla Commenda dei Cavalieri di Malta, fa scalo la via fluviale dell’Ossola. Le merci, scaricate dai navigli, imboccano sulle some le mulattiere alpestri, dirette ai passi. Dal porto i barconi tornano al Lago trasportando legna, carbone, pelli e panni del nord. Una ciurmaglia di portolani, bettolieri, facchini traghetta spezie e stoffe, caci e barili di lumache, che i commissari della Sanità a fatica tengono sotto controllo, per evitare che tra le merci in transito s’insinui il morbo. L’8 settembre, da Vogogna, il delegato della Sanità Arcangelo Meravigli scrive al conte Borromeo ringraziandolo per avergli mandato dodici guar­die e aver disposto un corpo di sentinella “alla bocca della Tosa”, a Fondotoce, per sbarrare il traffico fluviale. Lo informa anche di aver chiesto al delegato della Sanità di Baveno di mandargli due monatti “avendone non solamente bisogno ma estrema necessità, ritrovandosi ora tra morti e ammalati sessanta persone nel detto luogo di Cimamulera. (Enrico Rizzi Memorie … 2018)

  • “Abbandonando le altre, infette, al loro de­stino ineluttabile”

Nell’archivio Borromeo non si contano, in quei mesi, le lettere che giun­gono dall’Ossola, con le drammatiche notizie del dilagare del contagio; come questa del deputato alla Sanità di Lesa l’8 settembre: “Per bocca di tutte le persone ancora sane, abbandonando le altre, infette, al loro de­stino ineluttabile”.

Il lazzaretto di Cimamulera è in fondovalle, nel “piano di Vergonte Supe­riore, al Seslero: frazione di Piedimulera”. Il lazzaretto è attrezzato con tende, capanne di frasche per alloggiare i malati e i superstiti, recintato e strettamente sorvegliato da alcuni soldati sotto il controllo delle autorità sanitarie. Al centro è eretta una grande croce di legno. La croce, simbolo della fede del popolo, è l’unico possibile rimedio, si crede, per fermare l’ira divina. Il 16 ottobre 1585, mercoledì, ai piedi della croce, davanti alle capanne, si riuniscono tutti gli ospiti del campo. Genuflessi, con le mani giunte, assistiti dal cappellano con cotta e stola, innalzano i salmi penitenziali invocando la divina misericordia. “Il Signore onnipotente a causa degli innumerevoli pec­cati del popolo di Cimamulera, nel mese di agosto passato ha mandato il flagello della peste, talmente infierendo che su di una popolazione di 535 anime oltre 200 sono perite miseramente ed altre continuano a esserne colpite e sono in gravissimo pericolo di morte. Perciò, fiduciosi nella divina grazia, intendono placare con l’intercessione dei santi, mediante un solenne voto speciale, la collera del Signore, e la giusta punizione dei loro peccati. Che la divina Maestà si degni liberare loro e le loro fami­glie dal tormento della peste: invece di castigarli flagellandoli a morte, accolga il proposito di una diversa penitenza dei loro peccati e conceda ad essi il tempo e la vita per convertirsi alla retta via”. “Giurano pertanto di erigere nel termine di sei anni, nella terra e luogo di Cimamulera, una cappella dedicata ai santi Rocco, Fabiano e Sebastiano. Gli stessi sup­plicanti, sempre in ginocchio ai piedi della croce, altissima sopra di essi, rinnovano inoltre un voto da loro trascurato negli ultimi anni, quello di recarsi ogni anno in perpetuo, uno per famiglia processionalmente, alla chiesa di san Giulio nell’isola del lago d’Orta.” (Enrico Rizzi Memorie … 2018)

  • “Il borgo è serrato”

Domodossola “Il borgo è serrato”: così nel 1630 decisero le autorità di Domodossola per combattere il flagello della peste. La chiusura del borgo suscita però una serie di opposizioni poiché tante gente, per sopravvivere, deve fare capo alla campagna circostante e ai suoi prodotti. Così le guardie devono agire d’imperio, o quasi. Già ottant’anni prima, nel 1550, di fronte a un precedete epidemia della «morte nera», i borghesi di Domodossola decidono di fuggire a gambe levate, lasciano alle spalle «un popolo di derelitti». Per converso, nella peste del 1630 saranno degli abitanti di Pavia a rifugiarsi in valle Anzasca, mentre da Milano arriva a Vogogna il marchese Losetti. Fuga inutile perché il nobile sarà una delle 143 vittime registrate nella capitale dell’Ossola inferiore. Una moria che è stata un’autentica strage: 325 vittime a Domodossola (dove muoiono anche dei frati francescani che soccorrono gli appestati), quasi 100 a Trasquera, 30 a Preglia e addirittura 200 a Cimamulera dove viene subito edificata una cappella dedicata a San Rocco. Ma la storia delle pestilenze è molto più antica. Le prime stragi risalgono al 1424, a Novara e a Biandrate cui seguono, all’inizio del ‘500 quelle nell’Ossola, in particolare in valle Vigezzo. Gli untori vengono individuati fra alcuni viandanti arrivati da Milano.

In Formazza invece il dito è puntato sui somieri che praticavano le mulattiere con il Vallese, viaggi a quell’epoca gettonatissimi per i trasporti di vino, formaggio, sale e burro. Un traffico vitale, indispensabile per l’economia anche per il famoso mercato di Domodossola. Così l’utilizzo della guardiania militarizzata dell’epoca manca di efficacia. I feroci bandi del governo milanese rimangono lettera morta.

Nascono i lazzaretti e le quarantene, l’affumicamento delle case con l’incenso e la calce, e soprattutto l’esorcizzazione del male con preghiere e processioni. A Macugnaga, durante la «peste di San Carlo», alla fine del ‘500, per implorare la grazia divina il vescovo Bescapè ordina di riunire il popolo in chiesa al canto delle litanie: sicuramente un antidoto che favorisce il diffondersi dell’epidemia. Ma il presule novarese si dice anche disposto a visitare gli appestati come aveva fatto san Carlo a Milano, ritratto nel prezioso quadro del Tanzio nella parrocchiale di Domodossola. I medici dell’epoca sono impotenti e contro la peste consigliano «i grani di edera, le terga delle galline e le radici delle cipolle». A complicare le cose ci pensano i molti commissari di vario grado che già allora vengono nominati. Poi, arrivano le carestie e la fame. Tempi duri per l’Ossola, oggi inimmaginabili. (Enrico Rizzi Memorie … 2018)

Effetti della carestia a San Pietroburgo nell’Ottocento in questa antica stampa. In apertura il fiume Toce al tramonto (olio su compensato di Achille Jemoli, 1930, ph F. Ricci da internet).

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