Letture. Sulla parete misteriosa, indecisi a tutto
Un benefico sorso di buonumore lo offre il 1°maggio Giuseppe “Popi” Miotti mettendo a disposizione dei lettori di MountCity un racconto inedito, scritto d’impulso e in tono ghignante in questi giorni di pandemia. Non c’è voluto molto per “Popi”, fertile scrittore di cose di montagna, metaforizzare l’agitazione che ci pervade in vista della fase 2. Ed ecco nel racconto – intitolato “Metafora alpina” e qui pubblicato nella sua integrità – svilupparsi una cordata eterogenea di alpinisti attraverso una misteriosa parete mai percorsa prima. Tutti insieme, ma tutti o quasi…indecisi a tutto. Tra loro i più indisciplinati e presuntuosi cercano modi alternativi di procedere in contrasto con la guida che pure sa il fatto suo. Con ciò mettendo ovviamente in crisi la cordata. Non dovrebbe essere difficile identificare, camuffati sotto nomi fittizi, personaggi che agitano d’abitudine la scena della politica. Ma intanto il racconto, metaforico s’intende, procede agile verso l’epilogo con uno sguardo rivolto alle avventure del maldestro Tartarino alpinista, quelle che furono narrate alla fine dell’Ottocento da Alphonse Daudet, e, in controcanto, con un richiamo alle atmosfere di certi racconti ammonitori del grande Dino Buzzati. Buona lettura.
Metafora alpina
Al rifugio quel tardo pomeriggio si erano trovati in tantissimi. Qualche escursionista che si era accontentato di arrivare fin lassù per passarvi la notte e poi loro: le cordate che il giorno dopo si sarebbero lanciate all’attacco di una delle tante difficili scalate della zona. La cena, in uno spazio tanto ristretto, aveva contribuito alla socializzazione anche grazie a qualche bicchiere di rosso. La guida Silvano, silente e compassata, manteneva un certo amichevole distacco. Conosceva l’arte di salire le montagne, non ne faceva sfoggio ma neppure sottovalutava la sua preziosa sapienza, forgiata da anni e anni di scalate, di tempeste e di semplice lavoro come accompagnatore.
Vicino a Silvano sedevano un gruppetto di arrampicatori piuttosto spocchiosi, tra i quali spiccava un tizio con al collo un fazzoletto da boy scout, forse da Lupetto, che ne indicava il passato.
Erano tutti pretendenti alla grande parete nord, ancora inviolata. Anche la guida e i suoi clienti erano lì per quell’ambiziosa scalata, estremamente difficile e piena di incognite. Lo scout era un po’ sovrappeso e Silvano non poté che domandarsi come avrebbe potuto fare, l’indomani, a guidare la sua cordata in sicurezza. Ma il ragazzone, che i compagni chiamavano Andrea, continuava a vantare grandi imprese, a pontificare su cosa e come si sarebbe dovuto fare per arrivare in cima e tornare a casa vincenti. Guardandolo, Silvano, che aveva un innato intuito nel giudicare le persone dal fisico e comportamento, pensò sorridendo alla battuta sui boy scout spesso citata da un suo maestro: “Gli scout”, diceva, “sono bambini vestiti da cretini comandati da un cretino vestito da bambino” e poi scoppiava a ridere. Anche a distanza di tempo trovava in quella battuta un fondo di verità: innumerevoli le volte che i seguaci di Baden Powel erano stati salvati dopo essersi avventurati con troppa leggerezza fra le cime.
Accanto a colui che era ormai diventato il Lupetto c’era un gruppo di altri pretendenti alla scalata, e quello che aveva l’aria di essere il leader era anche lui un tipo piuttosto corpulento. Con grande disappunto di Silvano il massiccio figuro vestiva un maglione con lo stemma delle guide alpine e il cappellino dell’AssoRifugi, indossato forse nella speranza di ottenere uno sconto su servizio e pernottamento. Durante la cena, con gentilezza, Silvano gli chiese a quale gruppo di guide appartenesse perché certamente non faceva parte del suo, altrimenti l’avrebbe conosciuto almeno di nome. Anche l’omaccione si presentò come Andrea, farfugliando qualcosa sul fatto che no che lui non era guida, ma siccome aveva avuto sempre la propensione a comandare si sentiva autorizzato a indossare quel distintivo.
Silvano non disse nulla: non voleva creare dissapori e tanto meno una lite con una cordata che l’indomani sarebbe stata in parete con lui e i suoi clienti. La serata trascorse tranquilla, con la guida che raccontava sottovoce le sue avventure di scalatore e gli altri due che schiamazzavano arroganti, vantando imprese passate e future che chiunque, a digiuno di alpinismo, avrebbe giudicato straordinarie. Nella calda sala del rifugio c’erano anche altri pretendenti con le loro stesse mire e l’ultima parte della serata trascorse in un cameratesco chiacchiericcio. Alle dieci, il buon Serge, l’anziano gestore che aveva sostituito il precedente custode, il poco simpatico Georgy, un vecchio presuntuoso, ciecamente e pericolosamente legato ad un passato ormai morto, spense le luci e invitò tutti ad andare in branda. La sveglia era prevista per le tre del mattino. Le ore passarono veloci finché, nel buio antelucano, gli uomini si presentarono ai tavoli per la colazione.
Il chiassoso scout e la sua banda non badavano a chi ancora dormiva: evidentemente erano convinti che l’impresa che li attendeva consentisse loro di non curarsi degli altri. Arrivò anche il secondo Andrea, questa volta sfoggiando una rossa giacca a vento con il logo del Soccorso Alpino. Un’occhiata d’intesa fra Silvano e i suoi clienti, seguita da un sorrisetto ironico, valse più di cento commenti. La scalata che li attendeva era molto difficile e piena di incognite.
Tutti, a parte i due Andrea, apparivano molto concentrati e preoccupati: di quella preoccupazione che fa prendere sul serio ogni minimo particolare e valutare attentamente ogni possibile situazione che si sarebbe potuta verificare. Rovesciando il caffelatte sul tavolo cosparso di briciole e cartacce, la cordata del… soccorritore alpino si alzò e uscì baldanzosamente dal rifugio. La seguirono poco dopo alcuni ragazzi che, a loro detta, non facevano parte di alcun sodalizio, ma costituivano un forte gruppo antagonista alle varie associazioni alpinistiche. Avevano belle idee pensò Silvano, ma alla fine bisogna fare i conti con la realtà. Anche il Lupetto e i suoi stavano uscendo: “Seguitemi”, disse, “conosco un avvicinamento molto comodo e veloce”. Poi, accesa la pila frontale, si allontanò nel buio. Imitandolo, ma senza accodarsi, Silvano e i suoi, assieme ad altre cordate, uscirono nella notte stellata, volgendo verso l’oscura meta che attendeva come un affascinante drago dalle scaglie argentate.
Nessuno prima di loro aveva osato tentare seriamente quella scalata. Cosa avrebbero trovato in quell’immensità di roccia e ghiaccio? Come avrebbero salito quei diedri vertiginosi e oscuri? E quelle placche tanto compatte da sembrare la corazza di un cavaliere antico? E quei nevai sospesi da cui pendevano rivoli di ghiaccio che solcavano i graniti? E la parte finale della muraglia, 1500 metri più in alto, fatiscente di rocce fradice e malsicure?
La guida era sempre stata prudente: per certi versi non si riteneva un audace e anche per lui la salita costituiva un enigma. Si era trovato in quella situazione quasi all’improvviso dopo aver preso il posto di Livio, il suo fortissimo collega che, momentaneamente malato, aveva dovuto rinunciare all’impresa. Per non mancare la parola data ai suoi clienti, cercando in tutti i modi di vincerne la proverbiale prudenza, Livio aveva chiesto aiuto a Silvano. “So che non sei espertissimo di queste cose”, gli disse, “ma per una scalata del genere occorre anche molto pragmatismo: una buona preparazione non solo fisica, ma anche teorica, come la tua sarà utilissima”. Così, forse con maggiore coraggio di quello richiesto dall’ascensione stessa, Silvano aveva accettato la sfida. Durante il lungo avvicinamento guida e clienti si divertirono a fare battute sulla cordata di quell’Andrea che per loro era diventato il Clown. Lo si sentiva, poco più avanti, sbraitare proclami ad alta voce nonostante il pesante fiatone. Dava tutto per già fatto: la parete vinta e lui già nell’olimpo degli scalatori. Poco distante si comportava più o meno allo stesso modo il boy scout, la cui cordata si era rimessa sulla giusta via dopo aver perso tempo seguendo le avventate direttive del suo leder.
Stava schiarendo e la muraglia inviolata si offriva in tutta la sua grandiosità. Procedettero sul livido ghiacciaio. Silvano ringraziava quel freddo che li avvolgeva e che, momentaneamente, aveva bloccato le mascelle dei due Tartarini, ciecamente seguiti dai loro compagni. L’attacco della parete era evidente e tutti si affollarono in quel punto. Durante la salita del ghiacciaio, l’Andrea-Clown aveva indossato una pesante giacca tecnica con lo stemma della Guardia di Finanza che stava ora sostituendo con un capo più leggero. Increduli, Silvano e i clienti lo videro sfoggiare con naturalezza un meraviglioso gore-tex recante il logo degli Istruttori Nazionali del CAI e pigiarsi sul testone a uovo di pasqua un casco con le insegne del Club Alpino Accademico. Non dissero nulla, ma questo stile pacchiano e un po’ offensivo verso le varie organizzazioni di cui vantava gli stemmi cominciava a disgustarli.
Sotto l’incombente parete i due Andrea sembrarono trovare sintonia di vedute e, smorzati i toni vanagloriosi, cominciarono a confabulare fra loro. Evidentemente non erano più così sicuri come prima e dopo qualche minuto, rivolgendosi a Silvano accampando scuse diverse, gli chiesero di prendere il comando delle operazioni. Senza altre discussioni, seppur titubante, Silvano legò alla corda i suoi clienti e partì sulle prime difficoltà. Le altre cordate seguivano e, da lontano, non tardarono a farsi sentire i mugugni degli Andrea: “Perché vai di lì? Non vedi che è meglio la fessura di destra?”, gridava uno. “Mannò che fai? Tira dritto che poi sopra diventa facile”, strepitava l’altro. “Non dovevi portare quel materiale lì, sarebbe andato meglio il mio”, “No! Era meglio il mio, ma adesso siamo dietro e ci tocca seguire quello sciagurato che non si sa nemmeno come abbia fatto a diventare guida!”.
Avevano fatto diverse lunghezze di corda e la prudente lentezza di Silvano cominciava a innervosire i due occasionali partner, accomunati, oltre che dal nome, da uno smisurato ego e da una stupefacente vaniloquenza. A un certo punto, indossato un gilet della Protezione Civile, l’Andrea che ormai conoscete pensò di prendere in mano la situazione, tentando di anticipare la guida al successivo punto di sosta. Fortunatamente anche grazie ai componenti di altre cordate che videro la sua pericolosa manovra, fu riportato a più miti consigli. A nulla valsero le sue rimostranze fanciullesche e il gilet con cui era convinto di fare colpo: restò vergognosamente indietro, lamentandosi e piagnucolando di tanto in tanto.
Intanto il Lupetto si era allontanato seguendo delle varianti che secondo lui sarebbero state decisive ma che, in realtà, si rivelarono un flop assoluto. Il tempo scorreva e Silvano, prudente e pervicace, guadagnava metro su metro fra mille difficoltà. Ora interi settori di sesto grado, ora stretti budelli di ghiaccio quasi verticali: era uno sforzo fisico, ma soprattutto nervoso, quasi insostenibile. Eppure il suo volto non tradiva emozione e infondeva fiducia a tutti, compresi quelli delle cordate meno propense a condividere un ruolo di comprimari nella storica impresa.
Più in alto il tempo volse al brutto. Bisognava uscire in vetta a tutti i costi: un bivacco in quelle condizioni sarebbe stato fatale. In quegli attimi di incertezza il Clown, in grave affanno, livido e bluastro dalla fifa, ma testardamente intenzionato ad assumere la guida delle operazioni, tentò ancora una volta di mettersi a capocordata.
Tranquillo e sicuro, pur fra mille perplessità sulla via da seguire e sulla correttezza delle sue scelte, fatte spesso d’istinto, Silvano tirava dritto. Si stava assumendo il compito di portar fuori tutti dal pericolo: non aveva tempo di sprecare fiato ed energie per dar retta a quell’invadente personaggio. Tuttavia non poté fare a meno di notare come, con malcelato panico, il suo detrattore ricorresse sempre più spesso all’ostentazione di simboli religiosi, rosari e immaginette sacre. “La paura”, pensò, “fa perdere a quest’uomo ogni pudore…” e rabbrividendo al pensiero di cosa sarebbe accaduto se quell’omaccione avesse preso il comando, caparbiamente abbassò la testa sfidando le raffiche di tormenta e riprendendo convinto la salita. Verso sera, con la parete ormai irriconoscibile, imbiancata di neve come mai, gli scalatori si trovarono vicine alla vetta. Un chiarore lattiginoso apertosi nel cielo cupo indicava a Silvano l’uscita dalle difficoltà e forse anche un probabile miglioramento del tempo. Era sfinito: le mani quasi congelate per aver dovuto spazzare via, senza guanti, la neve dagli appigli; le gambe e le spalle a pezzi per le ore passate ad assicurare i clienti e per aver sopportato il peso dello zaino. Profonde rughe di fatica e tensione segnavano la sua fronte, ma l’orgogliosa certezza del suo ruolo professionale, che gli imponeva di portare in salvo tutti quanti, gli conferiva un’espressione ferma e pacifica.
Trascinandosi negli ultimi metri, Silvano scavalcò la cresta sommitale accolto da una violenta raffica di vento che quasi non lo riportò sul versante Nord lanciandolo nel vuoto. Con le forze residue assicurò le corde a uno spuntone di roccia, poi urlò a quelli che più in basso attendevano sfiniti e impauriti di afferrarle, facilitando loro gli ultimi metri: la parete era vinta.
Uno dopo l’altro tutti si strinsero a Silvano che benedisse quell’avvicinamento sociale per il calore non solo spirituale che ne traeva. Più morto che vivo giunse anche lo scout, che si tenne a sdegnosa a distanza, risentito come un bimbo viziato, per mostrare la sua contrarietà circa il comportamento della guida. Nessuno lo degnò di uno sguardo finché, alla fine, si vide umilmente costretto a seguire il gruppo entrando nel vecchio rifugio costruito sulla cima.
In quella stretta baracca trovarono altri arrampicatori riparatisi dopo essere saliti seguendo altri percorsi e, già dopo poche ore di clausura, cominciarono le discussioni circa il da farsi. I due Andrea e pochi altri erano dell’idea che si dovesse subito scendere: il tempo migliorava dovevano fare in fretta, anche perché il giorno dopo sarebbero dovuti andare al lavoro. Ripresosi dalla fatica Silvano, che moralmente si sentiva ancora il leader del gruppo, consigliò prudenza, illustrando con calma i pericoli che avrebbero rischiato in caso di discesa avventata. Tutti apparivano stanchi e la forzata convivenza fra quelle anguste mura alimentava una insofferenza che cresceva palpabilmente minuto dopo minuto.
Indossato il rosso maglione del Soccorso Alpino, Andrea-Clown ripropose l’immediata discesa: rimise il giaccone della Guardia di Finanza e un caldo passamontagna con il logo dei Ragni di Lecco poi spalancò la porta. Fu immediatamente investito da una raffica di nevischio che lo indusse a ordinare ai suoi il dietrofront. Cercando di minimizzare la figuraccia disse che in fondo l’aveva sospettato, l’aveva detto anche prima che era meglio star dentro… però bisognava pur provarci. Silvano se ne stava zitto in un angolo quando si sentì tirare in causa da Andrea-Lupetto: “E tu che fai? Ci hai portati fin qui, hai sbagliato via decine di volte perdendo tempo! Forse senza i tuoi errori saremmo giunti in cima prima del maltempo e adesso io sarei a casa con mamma e papà!”. Anche l’altro Andrea e molti ospiti del rifugio vollero dire la loro. Ognuno proponeva soluzioni diverse: per molti la necessità primaria era quella di scendere al più presto e c’erano anche due preti ben pasciuti che facevano fretta perché l’indomani avevano da dir messa.
Nei rari momenti di silenzio la guida cercava di spiegare che la stanchezza, la deconcentrazione dovuta alla fine di una scalata difficile e la fretta di scendere avrebbero potuto essere fatali. “Ma che vuoi che sia – ribatteva lo scout – si tratta di una discesa facilissima, quasi un sentiero. Io dico di andare. Se hai paura, tu e i tuoi restate pure qui, ma lasciatelo dire, sei un po’ un vile!” “E poi siamo un bel gruppo”, incalzava l’altro Andrea, “e l’unione fa la forza. Andiamo, andiamo, forza!”. A quel punto Silvano si sentì autorizzato ad alzare la voce: “Restate tutti qui, non muoviamoci! Recuperiamo forze e saldezza psicologica, organizziamoci per la ripartenza, ma restiamo prudenti” “Tu vuoi limitare le nostre scelte! Dovresti sottoporre la decisone sul da farsi in maniera democratica”, incalzò lo scout con la sua boccuccia stretta, “altrimenti sei… un fascista!”
Sentitosi esautorato dalla funzione di critico primario l’altro Andrea, che si muoveva ingombrante come un tricheco fra zaini, tavoli e brandine, giusto per mostrare che aveva gli attributi, diede contro al suo omonimo senza rendersi conto che in quel modo approvava implicitamente le vedute della guida. Il trambusto aumentò quando i due preti decisero di unirsi al voluminoso Clown, gridando che non si poteva impedire loro di dir messa: l’atmosfera si stava surriscaldando. A quel punto Silvano fece un rapido sondaggio e si rese conto, quasi con stupore, che la maggior parte degli astanti era d’accordo con lui. “Evidentemente”, pensò, “a dispetto di ciò che credono questi due fanfaroni, la gente tiene per sé una dose di buon senso e di spirito critico: non si fa abbindolare da travestimenti e parole al vento”. I
Intanto i due detrattori, i preti e anche una signorina con gli occhi a palla, comparsa da chissà dove, continuavano a polemizzare a ruota libera. Erano scatenati e a un certo punto, non potendone più, Silvano li apostrofò duramente: “Per non perdere tempo bisogna a volte fare le cose lentamente, con calma e attenzione! Mi sento responsabile per tutti e non voglio che accada qualche incidente per la fretta di scendere!” Detto ciò si rimise sulla brandina senza più degnare di uno sguardo i rivali. Dopo qualche minuto di silenzio tutti quelli che avevano deciso di abbandonare la capanna si prepararono per la discesa.
Indossata una rossa mantellina con un gigantesco logo del Soccorso Alpino, Andrea, ormai sapete quale, proclamò a gran voce: “Seguite me! So come scendere, conosco la via, in un paio d’ore saremo sul sentiero!” Un po’ malvolentieri, mugugnando a denti stretti, anche l’altro Andrea si accodò, non senza tentare qualche suggerimento subito cassato dall’improvvisata guida. Li videro uscire e sprofondare nelle nebbie, cordata di fantasmi che, senza alcuna apparente preoccupazione, si precipitava verso valle. Fu questione di pochi istanti e poi scomparvero. Silvano e gli altri si rimisero sulle cuccette, si rifocillarono bevendo tè e caffè in abbondanza attendendo che il tempo migliorasse: erano le sette di sera e il buio non avrebbe tardato.
Passarono altre due ore. La bufera si era placata ed il cielo schiariva… ma era tardi per lasciare la capanna. Fra i presenti non c’era però ansia: si era deciso di fare con calma e così si sarebbe fatto, scendendo l’indomani. Improvvisamente, quello che all’inizio era sembrato a tutti un colpo di vento, si tramutò in un forsennato battere sulle pareti di legno della costruzione. Giunsero poi flebili invocazioni d’aiuto. Allora, abbandonato il tepore della sala, Silvano coi suoi clienti uscì a controllare. Stravaccato a terra con la sua mantellina del Soccorso Alpino c’era Andrea, con i due preti e la signorina con gli occhi a palla: tutti erano sull’orlo dell’ipotermia. Invano chiesero loro notizie degli altri e del Lupetto: ottennero solo uno sconnesso biascicare. Trascinarono quei poveretti in salvo e a furia di strofinamenti, tazze di tè e di brodo, piano piano li riportarono alla vita.
Andrea spiegò che durante la discesa avevano perso l’orientamento e che lui era scivolato per diversi metri per poi fermarsi sull’orlo di uno strapiombo trattenuto dalle corde. Dopo alcuni tentativi, non sentendosela più di proseguire, avevano pensato di tornare al rifugio. Dell’altro Andrea e dei suoi compagni non sapevano molto, tranne che avevano ritrovato il suo fazzoletto nella neve, sull’orlo dello stesso strapiombo che per poco non era stato fatale al capo della seconda cordata di frettolosi alpinisti. Con ogni probabilità il Lupetto era precipitato, trascinando nel vuoto i suoi compagni.
Passò la notte: un’alba radiosa accolse Silvano e i suoi favorendo una sicura discesa che in breve li depose sul fondovalle. Andrea, i preti e la signorina con gli occhi a palla, ancora scossi e incapaci di muovere un passo erano rimasti al rifugio in attesa dei soccorsi, quelli veri. Purtroppo il tempo cambiò ancora e per altri tre giorni gli sciagurati furono costretti a condividere le poche risorse alimentari disponibili. Poi finalmente furono recuperati… pallidi, emaciati, in ritardo sui loro appuntamenti, ma più snelli.
Giuseppe “Popi” Miotti

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