Alpinismo che fa rima con affarismo
Sul bandierone fatto sventolare in vetta all’Ama Dablam la Gazzetta dello Sport ha fatto capire, salvo errori, che è tutto nella norma. Inutile agitarsi e scandalizzarsi. Autore dell’exploit è stato il fin troppo adulato Nirmal Purja con la sua agenzia Elite Himalayan Adventures. Costui, nepalese, di recente ha collezionato 14 ottomila in sei mesi giovandosi di elicotteri, bombole di ossigeno, sherpa d’alta quota. E proprio sulla “rosea” ha ricevuto l’endorsement di Reinhold Messner. “Nirmal ha lanciato una sfida diversa”, ha decretato Reinhold, “per dimostrare che i nepalesi sono oramai in grado di prendere la leadership della scalate himalayane”. Nel frattempo, il nuovo primato di Nirmal è consistito nell’esporre platealmente sul citato Ama Dablam, a partire dalla cima, una bandiera gigantesca di 100 metri di lunghezza x 30 di larghezza. Come si legge o si leggerà nel libro del Guinness dei primati, è stata la bandiera più lunga e larga mai portata su una vetta himalayana.
Un tempo i saggi pensavano che si scalano montagne non perché il mondo possa vedere chi le scala ma perché chi le scala possa vedere il mondo. Non è certo il caso di questo Purja e nemmeno della stragrande maggioranza degli alpinisti sostenuti e difesi a spada tratta da certi media rispettosi delle regole del commercio, solo quelle. Gente che aspira soprattutto, e non da oggi, alla visibilità. E a questo punto dispiace quasi di averlo elogiato il pur bravo Nirmal per l’impresa che gli ha dato la fama. Di puro business si trattava e si tratta come lui stesso ammette. “Questo progetto”, ha spiegato a proposito del bandierone, “ha decisamente contribuito a promuovere in Kuwait la campagna del governo del Nepal per il prossimo anno ‘Visit Nepal 2020’″. E poi che male c’è, si potrebbe aggiungere a difesa di Nirmal, a portare una bandiera in vetta? Mica la si lascia lassù come fanno gli europei sulle Alpi riempiendole di croci.
Venendo al Nepal, Luciano Caveri nel suo blog ci ricorda che si trova in una situazione delicata: da un lato deve affrontare le conseguenze, anche d’immagine, delle code della scorsa stagione sull’Everest e le relative accuse di voler fare solo cassa a spese della sicurezza di tutti; dall’altro è alle prese con un’aggressiva campagna di marketing per far aumentare il turismo nel Paese durante il 2020. Il fatto è che nel paese delle nevi ormai tutti portano bandiere sulle vette, magari un po’ più piccole. Bisognerebbe che un giornale come la “rosea” prendesse posizione contro tale andazzo. Ma niente da fare. Ormai sulla citata “rosea” si è persa l’impronta educativa che sempre l’ha contraddistinta. Perché sembra proprio che questo giornale, come osserva Paolo Ziliani sul Fatto quotidiano del 18 novembre 2019, “abbia smesso di essere quel che sempre era stato: non un semplice giornale, ma una bussola”.
In merito alla dilagante mania di far sventolare vessilli di ogni genere si dovrebbe essere refrattari a ogni tentativo di rendere retorico lo sport. Fare della vetta un alzabandiera, o un altare, o un pulpito da cui lanciare messaggi e prediche, rischia di aggiungere qualche cosa di troppo al semplice e (un tempo?) onesto gioco dell’alpinismo. Unica attenuante a questa moda delle bandiere in vetta potrebbe essere il caso di chi manifesta il proprio dissenso verso la più atroce di tutte le ingiustizie: la guerra. Insomma chi ritiene che il mondo intero sia vittima di un grave arbitrio può arrivare a sventolare anche a quota ottomila il suo dissenso (e quello di gran parte della popolazione mondiale). Proprio come si usava negli anni Ottanta quando un tale concepì una particolare bandiera “della pace” ad uso degli alpinisti che coltivavano l’idea di un mondo migliore e ancora non ci si rendeva conto che lo si poteva rendere migliore solo prendendosi a cuore lo sfavorevole evolversi del clima.
Ma i tempi sono cambiati. Forse qualcuno oggi crede ancora ingenuamente nel sentimento della vetta? Qualcuno pensa che il sentimento della vetta sia il momento più alto dell’amore per la montagna, un anelito di fede che porta alla grazia, alla conquista della libertà interiore o addirittura a un sentimento di pace da trasmettere agli sfortunati belligeranti? Macchè, oggi la vetta è solo l’aspetto più visibile del dilagante affarismo già denunciato temporibus illis da un certo Walter Bonatti. E spiace che giornali e blog infarciti di banalità e giornalisti che si fingono devoti alla memoria del grande Walter non vogliano capirlo facendo diventare supereroi degli affaristi. (Ser)
