Sofferti verdetti
L’alpinismo? Poco più di una comparsa sullo schermo del TrentoFilmfestival dove, cinema a parte, di alpinismo si è parlato nei soliti sia pure affollati raduni spirituali tra addetti ai lavori i cui echi si spengono in fretta, generosamente annaffiati con Teroldego e Marzemino, cosa che non guasta. Nessuno si meraviglia più se nel palmares non c’è traccia di alpinisti e alpinismi, visto che la giuria della 67esima edizione ha assegnato la Genziana d’oro Miglior Film (Gran Premio ‘Città di Trento’) al documentario franco-belga ‘La Grand-Messe’ sui tifosi che vanno ad applaudire il Tour de France. Il premio del Club Alpino Italiano Genziana d’oro che ci si aspetta assegnato al miglior film di alpinismo è andato a un documentario poetico e contemplativo (“La regina di Casett” di Francesco Fei) sulla vita privata di Giorgia in un paesino di montagna. Ma sono tempi duri, indubbiamente, quelli delle giurie che devono misurarsi con un alpinismo fortemente in declino nell’immaginario collettivo, frantumato in decine di attività outoor più o meno adrenaliniche.
CHIODI E CHIODINI. E veniamo a chiodi e chiodini d’oro e d’argento, piccozze d’oro, targhe scolpite di ogni dimensione e foggia che costellano la fiera delle vanità dell’alpinismo nella stagione dei premi. A che titolo è giusto distribuire riconoscimenti in un’attività umana refrattaria per definizione a ogni regola? Il criterio dev’essere quello delle difficoltà tecniche superate? Il grado, Gogna docet, viene considerato l’unità di misura della complessità in montagna, ma non è sempre così: difficoltà ambientali, condizioni della parete, affaticamento soggettivo e molto altro ancora possono compromettere le capacità dell’uomo di superare certe prove: questo si poteva leggere nel blog del famoso alpinista genovese. Più che mai andrebbe allora ribadito che l’alpinismo è ricerca di emozioni personali inclassificabili. Tanto più che da esplorare e scoprire resta poco o nulla, a parte certe situazioni in cui la ricerca di emozioni sconfina nel suicidio, unico modo per strappare un briciolo di spazio nei giornali cosiddetti generalisti e di sostegno da parte di sponsor recalcitranti.
MINORANZE ARRAMPICANTI. Da fonti autorevoli si apprende che l’alpinismo riguarda un’esiga minoranza di praticanti, il due per mille dei soci del Club Alpino Italiano. Quale giuria può prendersi il lusso oggi di giudicare questa minoranza arrampicante, di dargli dei voti su un’ideale pagella? Certamente l’attenzione dei giurati si concentra in generale su chi cerca la via difficile, sconosciuta, il cimento puro. Non certo sui cosiddetti “alpinisti qualunque” che sono la maggioranza di questa minoranza e realizzano in silenzio esperienze di rilievo riferendone sui social. “Quanto più un alpinista compie imprese difficili, rischiose, tanto più è bravo, tanto più è forte e capace, sempre però sotto l’aspetto tecnico”, annotò il grande Alessandro Gogna nei suoi diari (era il 1968). La matassa si presentava già allora ingarbugliata.
UNA SOCIETA’ CHIUSA. Certo, un premio alpinistico non è un Nobel dove corrono fiumi di dollari e determinanti sono gli interessi politici in gioco. Un premio alpinistico dovrebbe valere, dal punto di vista etico, ben più di un Nobel. Eppure clientelismo e “tribalismo” sono pur sempre limiti con cui dover talvolta fare i conti quando si opera in quelle che Karl Popper definisce società chiuse e dunque oligarchiche. E l’alpinismo è una di queste. Ne ha perlomeno tutta l’apparenza, i rituali, le rivalità, i codici di comportamento, le invidie, le ipocrisie. Si aggiunga che le regole del gioco nell’alpinismo, ammesso che ci siano delle regole e qualcuno che le rispetti, sono in continua trasformazione. E poi retoriche ed eroismi veri o presunti possono essere in agguato e influenzare gli eventuali giurati non meno della loro amicizia o familiarità con il premiando. In queste condizioni si possono forse ragionevolmente ottenere verdetti da ritenere inappellabili? Non c’è pericolo che in certe confraternite i giudizi restino comunquemente e umanamente opinabili?

GRATIFICAZIONE DELL’EGO. “Oggi che tutto o quasi è stato conquistato”, si legge nel sito di Mountain Wilderness, “oggi che il livello tecnico si è spinto così in là, se non si vuole che l’alpinismo sia ‘semplicemente’ uno sport come tanti altri, non si può prescindere da una profonda ricerca interiore e del rapporto indissolubile con la natura, con il nostro corpo e con le nostre emozioni più profonde. La consapevolezza dell’estrema fragilità delle Alpi e delle logiche che per secoli ne hanno consentito la sopravvivenza non può mancare all’alpinista del XXI secolo”. Esemplari propositi. Ma esistono parametri per misurare questa consapevolezza? Con quali strumenti escludere che la ricerca di se stessi, delle proprie capacità di osservare, ascoltare e decidere venga azzerata da obiettivi scelti solo per la gratificazione dell’ego, ma privi, come osserva Nicola Pech nel sito citato, “di sensibilità, di risonanza sensoriale e percettiva, di comprensione, di reale consonanza con il proprio sentire profondo”?
CLIENTELISMI. Si sa che cresce continuamente il livello tecnico dell’alpinismo ma ad alcuni quesiti resta comunque difficile dare risposta. E’ la squadra o l’individuo che conta quando si sale per primi su una vetta? Se qualcun altro dello squadrone di Ardito Desio fosse arrivato nel 1954 in cima al K2 qualche ora dopo Compagnoni e Lacedelli, sarebbe stato soltanto il primo ripetitore o il primo salitore a pieno titolo? Conta di più il primo arrivato in qualsiasi punto della cresta sommitale o quello che per primo ha messo piede sul punto più alto? Può essere determinante anche chiarire da chi vengono le segnalazioni dei candidati e quale iter si è seguito per portarle al tavolo della giuria senza creare canali preferenziali che possano condizionarne l’operato. La giuria, qualsiasi giuria, dovrebbe essere libera di esprimersi senza interferenze e guardarsi dal cambiare “in corsa” le regole del gioco. Ma prima di tutto la giuria dovrebbe porsi la domanda: che cos’è oggi l’alpinismo, è cimento puro o vittoria personale? Dovrebbe possibilmente anche chiedersi, questa ipotetica giuria, se le imprese alpinistiche rivelano oggi minor eroismo a parità di capacità tecniche rispetto al passato. Di conseguenza, se conta più la fantasia o il coraggio. E l’eventuale assassinio della fantasia, se accertato, è da considerare più virale di quello dell’impossibile annunciato cinquant’anni fa da Messner in un suo famoso scritto?
PROSPETTIVE STORICHE. Al giurato si chiede, per concludere, assoluta competenza della materia, ma anche di saperla lunga in una prospettiva storica. Un bel fardello. Per fare un esempio, i primi alpinisti, anche i migliori, furono assai più degli impresari che degli esecutori di ascensioni. Gli Inglesi, forniti di grandi mezzi, accorti e intraprendenti, innestarono nel nascente alpinismo la loro magnifica volontà di scoperta e di dominio, la straordinaria capacità di organizzarsi. Ma poi tutto cambiò. Il giudizio a loro riservato non può che essere differente da quello dovuto, per esempio, all’austriaco Winkler: quest’ultimo, dopo tante conquiste dei fortissimi d’Oltre Manica, fece nascere lo sport dell’arrampicamento aprendo le porte del più vertiginoso regno dell’avventura. Da allora in poi cercare di alzare l’asticella è stato un impegno continuo che ha attraversato le generazioni fino agli odierni exploit supermediatizzati di Alex Honnold che si è meritato il premio Oscar mostrando in un documentario mozzafiato quanto è bravo e temerario. Un impegno questo del superamento che ha trovato riscontro in una miriade di specializzazioni, dalle traversate ai concatenamenti, dal dry tooling al misto, dal free solo alle gare con il cronometro.
MERITO DEI MITOCONDRI? La competizione su cui esprimersi riguarda pur sempre uomini dotati da madre natura di particolari qualità ancora in parte da studiare. Uomini con qualche marcia in più sotto l’aspetto quasi sempre mite. Che cosa faceva di Walter Bonatti una persona dalle doti eccezionali, un caso unico sotto tutti gli aspetti? Un’analisi fra le più originali su quest’uomo ai confini della leggenda che continua ad alimentare l’uscita sugli scaffali di saggi e biografie l’ha compiuta a suo tempo all’Università dell’Insubria a Varese il dottor Hermann Brugger, direttore dell’Istituto di medicina di emergenza in montagna di Bolzano. Forse furono le caratteristiche dei mitocondri, benefiche particelle cellulari che madre natura ci fornisce, a favorire Walter nel tremendo bivacco agli ottomila metri del K2 e nelle sessanta ore di bufera del Freney. Forse, va ripetuto. Perché a proposito di ipossia e di ipotermia, precisa Brugger, la genetica è ancora in gran parte da indagare. Ecco allora affacciarsi l’ipotesi più plausibile. Fu soprattutto grazie a fattori psicologici che Bonatti seppe sopravvivere alle avversità climatiche, alle quali contrappose una naturale intelligenza, lo stesso insostituibile strumento con cui concepì le sue straordinarie scalate. Ma che cosa potrebbe succedere, si chiede invece Yuval Noah Harari (“Sapiens. Da animali a dei”, Bompiani, 2018) una volta che la medicina cominciasse a occuparsi dell’incentivazione delle capacità umane? Come si trasformerebbero gli alpinisti se potessero accedere a capacità artificialmente potenziate attraverso computer e algoritmi? Che valore potrebbero allora assumere le loro esperienze alpinistiche estreme?
PREMI DA ABOLIRE. Davvero non è semplice mettersi nei panni di un giurato che deve assegnare un premio alpinistico senza farsi condizionare dalle qualità dei mitocondri di cui l’alpinista è dotato e da eventuali algoritmi, ma che deve in ogni modo mostrarsi refrattario a inclinazioni e suggestioni personali, amicizie, complicità, clientelismi sempre in agguato. E se, per onestà, per impraticabilità, i premi alpinistici fossero tutti da abolire, nessuno escluso? Siamo seri, aboliamoli! (Ser)