Il bello di non arrivare in cima
Cos’è l’andare in montagna senza la conquista di una cima? Bella domanda. Paolo Cognetti, vincitore dello Strega nel 2017, ci mette tutto un libro (“Senza mai arrivare in cima”, Einaudi, 120 pagine, 14 euro) per rispondere che “più delle cime gli interessano le valli, più degli alpinisti i montanari”. Sostiene curiosamente che la rinuncia alle cime è “un atto di non violenza, un desiderio di comprensione, un girare intorno al senso del proprio camminare”. Strani contorsionismi verbali, ma sono affari suoi. Perché l’unica risposta possibile è che, invece, per tanti fortunati mortali l’arrivare in vetta costituisce il coronamento di un sogno, un prezioso arricchimento anche spirituale. Tanto per fare un esempio, Marco Bianchi, avvocato, eccellente alpinista e bravo fotografo, un milanese doc come Cognetti, scrisse nel 1998 “Montagne con la vetta” (I Licheni) per raccontare della curiosità che lo ha spinto sulle montagne più alte della terra, lo ha indotto a soffrire e gioire per un ottomila: dalle salite del Manaslu e del Dhaulagiri all’esaltante ascensione all’Everest, dal tragico bivacco sul K2 agli entusiasmi del 1993 quando, in soli quattro mesi, scalò il Broad Peak, il Cho Oyu e lo Shisha Pangma. Per Bianchi, a differenza di Cognetti, la vetta è importante, la vetta è tutto o quasi. Questione di gusti. Mai gli sarebbe venuto in mente di pensare che la vetta può essere considerata un atto di violenza, né può averlo pensato Walter Bonatti anche se poi scelse di affrontare avventure essenzialmente orizzontali. Anche se sappiamo che, per motivi religiosi, alcune popolazioni considerano o consideravano tabù la conquista di una vetta.

Con l’aria pensosa del vecchio della montagna che esprime grandi verità Cognetti si avvia dunque sui sentieri dell’Himalaya. Un trekking come ce ne sono tanti con le sue meraviglie e i suoi inconvenienti, le sue scomodità e i suoi momenti di esaltazione. E con gli inevitabili incontri: un cane girovago, le maestrine che vanno per ore a piedi lungo i sentieri per fare lezione, le mamme disperate perché non hanno il latte in polvere per i figlioletti. Rimangono indimenticabili per chi ha vissuto queste avventure i risvegli in tenda nel sacco a pelo termico con il caffè fumante portato dal servizievole sherpa mentre i portatori ancora si rivoltano nelle loro logore coperte, l’incubo dei colli da cinquemila metri da superare, la mancanza di fiato in carenza di un giudizioso acclimatamento, i malesseri intestinali, gli scambi di confidenze con i compagni di gita, gli appunti e i disegnini fatti in tenda nei momenti di ozio, le mutande da lavare nei torrenti. Sempre, in sottofondo, con quel desiderio provvisoriamente appagato di evadere dal tran tran quotidiano del telefonino e dei vatsapp, con quell’inquietudine da molti condivisa che ha portato lo scrittore ad abbandonare la città per stabilirsi tra i residui silenzi della valle d’Aosta.
Costante, leggendo, è la sensazione che l’unico Himalaya che interessa a Cognetti è quello del successo letterario. “Alla fine”, annuncia, “ci sono andato davvero, in Himalaya…Volevo vedere se da qualche parte nel mondo esiste ancora una montagna integra, vederla coi miei occhi prima che scompaia. Sono partito dalle Alpi abbandonate e urbanizzate e sono finito nel più remoto angolo di Nepal, un piccolo Tibet che sopravvive all’ombra di quello grande e ormai perduto. Ho camminato per 300 chilometri e superato 8 passi oltre i 5000 metri, senza raggiungere nessuna cima. Mi accompagnavano un libro di culto, un cane incontrato lungo la strada, alcuni amici: al ritorno mi sono rimasti gli amici”. Gli è rimasto anche questo malinconico taccuino di viaggio illustrato in copertina dal bell’acquerello di Nicola Magrin. Un librettino da 14 euro dalla prosa scorrevole e dalle descrizioni accurate del paesaggio e della gente che lo anima: come si conviene, appunto, a un Premio Strega. (Ser)
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