Una natura fino a che punto protetta?

Si appresta a celebrare quarant’anni di natura protetta il Parco naturale dell’Alpe Veglia, poi ampliato con la gemella Alpe Devero. Come annuncia Toni Farina nell’editoriale del sito di Mountain Wilderness (https://www.mountainwilderness.it/editoriale/il-paradosso-dellalpe-devero-e-il-suicidio-del-pd/), ciò accadrà a Villadossola sabato 20 ottobre 2018 con un convegno dal titolo “I parchi naturali per una nuova etica della montagna”. L’evento sarà anche un’occasione per discutere sull’accordo di programma “Avvicinare le montagne” riguardante il collegamento Alpe Ciamporino-Alpe Devero, che ha suscitato la riprovazione delle associazioni ambientaliste con la raccolta di oltre settantamila firme contrarie a cura del Comitato Pro Devero di cui fa parte Mountain Wilderness. ”Il progetto prospettato nell’accordo di programma fra la Società San Domenico e la Provincia del VCO”, spiega Toni Farina, “avvicina le montagne ma allontana i clienti. Uccide il mito”. Anche Alberto Paleari, alpinista e scrittore ossolano, mette in luce gli aspetti incongrui del progetto in Gogna Blog (http://gognablog.com/alpe-devero-avvicinare-le-montagne/). Sulla magia dell’Alpe Devero e, di riflesso, sul perché in tanti spendono energie per la difesa di questo meraviglioso lembo di Alpi Lepontine, pubblichiamo un significativo articolo dello scrittore e alpinista Lorenzo Revojera, socio benemerito a Milano del Club Alpino Italiano, autore tra l’altro del bellissimo romanzo “Le fragole dell’Alpe Devero” (Mountain Promotion, 2003).
Devero, l’alpe per eccellenza, in uno scritto di Lorenzo Revojera

Un’estate complicata, per me, quella del 1967; l’impresa di costruzioni per la quale lavoravo aveva acquisito da poco un importante appalto e i miei capi avevano una gran fretta di aprire il cantiere. C’era in ballo anche un premio in caso di consegna anticipata dei lavori, e ci sentivamo in grado di farcela. Morale; ferie risicatissime per tutto il personale. A me toccò una settimana soltanto, a fine agosto, quando tutti i miei abituali compagni di cordata avevano ormai esaurito le loro vacanze; non trovai nessuno disponibile a venire con me a girare il gruppo del Gran Paradiso, come avevo progettato da tempo. Da solo in montagna non mi è mai piaciuto andare, a parte qualche camminata di allenamento sulle Prealpi; San Primo, Bolettone, Cornizzolo … in realtà, lì sei solo fino a un certo punto, non fai altro che incontrare gente di Milano e magari anche un amico che ti compare davanti all’improvviso sul sentiero: “ Toh! Cosa fai qui?”.
Seppi che mio cugino Giorgio, studente universitario – dieci anni più giovane di me – per preparare al fresco un importante esame di medicina (mi pare anatomia) era andato a rintanarsi in una località isolata, che non conoscevo; l’alpe Devero, sopra Baceno, nell’Ossola. L’Ossola la conoscevo di fama per via della famosa repubblica che i partigiani vi avevano creato durante la guerra, e l’avevo sfiorata andando al Rosa. Montagna è sempre montagna, mi dissi; a Milano non ci resto di sicuro, andiamo a far compagnia al Giorgio, qualcosa combineremo, non vorrà mica studiare tutto il sacrosanto giorno, so che è uno sportivo; arrampicare non arrampica, pazienza, faremo qualche giro.
Arrivo in corriera a Goglio; la valle lì finisce, tetra, imbozzolata fra muri di roccia costellati di abeti e percorsi da una condotta forzata. Con il pensiero al Gran Paradiso e alle sue bianche distese di neve, e il Bianco sfolgorante davanti, mi dico; dove sono finito! Va beh, l’aria è buona, alla peggio andremo a visitare la centrale e la diga, in fondo il mio sogno (tradito) era quello di lavorare agli impianti idroelettrici… La funivia della Edison a quel tempo faceva ancora servizio pubblico (l’hanno smantellata nel 1992); la cabinetta rossa – c’eravamo dentro solo io e il conducente – va su, va su … e mi sbarca di colpo in un mondo tutto diverso. Nessuno in giro; un pascolo pacifico, immenso, con gruppi di placide vacche, percorso da un largo torrente mormorante fra l’erba, ignaro di doversi fra poco tuffare nelle prese.
Intorno una corona di boschi, di radure, di grandi massi rossicci. L’albergo Cervandone, dove abitava Giorgio, ottocentesco gigante di pietra e intonaco cadente quasi sembrava chiedere scusa di trovarsi lì ad ingombrare. Contro il cielo cime poco famose che avrei imparato a conoscere – Cervandone, Valdeserta, pizzo Fizzi, buffo con tutte ‘ste zeta – e la Rossa che si china verso di me quasi a dirmi: ben arrivato! ma cerca di non disturbare.

Fu in quel momento che incominciai ad avere il Devero nel cuore. Già, perché la carta dice alpe Devero, ma per tutti è il Devero, come si dice il Sandro, l’Ernesto. Giorgio mi aspettava e fu chiaro che aveva una gran voglia di muovere le gambe, stufo di ossa, cartilagini, glandole e sistema nervoso; una brezza da nord prometteva bel tempo. Il giorno dopo, di mattina presto, eravamo già in cammino verso la bocchetta d’Arbola. Il programma – studiato sulle tavolette al 25.000 dell’IGM, ché allora c’erano solo quelle, e in base ai consigli del gestore – era di valicarla, e tornare via Svizzera dal passo della Rossa.
E fu una giornata tutta di scoperte. Ecco Crampiolo con le sue locande e i suoi casolari ancora abitati; ecco il lago di Codelago con la sua timida diga anni ’20 incorporata nel paesaggio; poi la salita alla bocchetta con lo stupore di trovarsi sotto gli scarponi nell’ultimo tratto, quasi senza rendersene conto, i resti di una via medievale; lastroni di granito rossastri di lichene, ben sovrapposti l’uno sull’altro a far gradinata, adatti al passo del mulo e del viandante; pelli e cuoi e stoffe e metalli lavorati in giù, sale e vino e olio in su.
Il senso di colpa all’entrare in territorio straniero ci prese all’improvviso; fu effetto della comparsa dei cippi di confine, e noi non s’aveva passaporto (erano ancora i tempi del contrabbando); ma aggiunse sapore trasgressivo alla gita. Da qui fino al passo della Rossa fu quasi un gioco a rimpiattino con le guardie di frontiera che a dire il vero non diedero segno di vita; ma ci piaceva immaginare che da qualche parte ci fossero. Forse dietro quella baita… giriamo al largo, fra gli abeti.
Alla fine, dopo quasi otto ore di marcia, ecco i laghetti, ecco il passo della Rossa; abbracciare dall’alto il Devero che era già nostro fu la ciliegina sulla torta. In basso, i ciclopici massi sorgenti dal muschio ci diedero il benvenuto come vecchi amici che aspettavano da tempo. Ci sembrò bello persino l’albergo Cervandone. In tutto il giro, non incontrammo anima viva.
Sono emozioni, queste, che non si cancellano; solitudine, tracce del passato, imprevisti, fiato sospeso, terreno ignoto, occhio al sentiero giusto per non perdere quota. Emozioni tutte personali che maturano quando in montagna ci vai con umiltà; ad ascoltare, ad imparare, ad apprezzare le piccole cose. Tant’è vero che questa esperienza – mutatis mutandis – l’ho piazzata al centro di un mio libro con pretese educative che ho intitolato Le fragole dell’alpe Devero.
Ma parlare di wilderness al Devero sarebbe inadeguato. Come giustamente affermano Alberto Paleari (La casa della contessa) e Erminio Ferrari (Mi ricordo la Rossa) il Devero è zona ampiamente antropizzata. Soprattutto da quando hanno costruito la strada che sale da Goglio e il relativo parcheggio finale, è méta frequentatissima di comitive cittadine e non. E meno male che le auto si devono fermare sotto l’orlo dell’alpe… Ci sono ville, trattorie, alberghetti, rifugi, baite ammodernate, una chiesetta; c’è il colossale blocco dell’ex albergo Cervandone; la morfologia della zona ha miracolosamente scoraggiato lo sfruttamento sciistico, a tutto vantaggio del fascino locale.

Perché è chiaro che di fascino si tratta, e di fascino discreto; i libri che ho citato lo dimostrano. Non raccontano imprese strepitose su pareti inviolate o catastrofi imputabili alla “montagna assassina” prediletta dai cronisti. Paleari con la sua incontenibile fantasia ha fatto del Devero il fulcro di un romanzo metapsichico dove i colpi di scena non esitano a collocarsi anche nel soprannaturale; Ferrari visita il Devero attraverso le persone che vi hanno vissuto o ci vivono, che non sanno distaccarsene o ne hanno il rimpianto; il sottoscritto, ripeto, con una buona dose di ricorso all’autobiografico ha preso il Devero come spunto per una storia – diciamo così – edificante.
Mi chiede un amico curioso: mi spieghi come mai il Devero continua a “generare” letteratura fra tanti gioielli delle Alpi oggi trasformati in “non luoghi”? Semplice: perché il Devero è un luogo. Già da quando fu esplorata dal milanese Riccardo Gerla alla fine dell’800 – Ferrari fa bene a ricordarlo – è l’alpe per eccellenza: luogo appunto dove uomini, donne, animali selvaggi e domestici, natura e storia sanno convivere armoniosamente. E l’armonia è quella della montagna; è lei che detta i tempi e i modi della vita e della morte, in uno spazio felicemente dimensionato, ridotto rispetto alla più ampia, vicina e pure splendida alpe Veglia, ma più commisurato allo sguardo. Per chi gusta la vera montagna, trovarsi al Devero è come trovarsi fra le mura di casa; conosci gli spazi, la gente, sai dove sono le cose senza bisogno di cercare, ti muovi con naturalezza. Casa tua non è forse un luogo? E siccome dentro di noi è sempre annidato uno scrittore – non ti dico poi fra gli alpinisti – che cosa ti viene più naturale del prendere la penna (pardon, il computer) per scrivere dei fatti di casa tua?
Lorenzo Revojera

Belle riflessioni ma “al” Devero c’e’ sempre stato anche lo sci, con impianti di risalita sul monte Cazzola dagli anni ’50 (leggendaria la qualita’ della neve delle sue piste, che scendono tutte sul versante nord) e ben integrato al resto dell’ambiente, oggi si tratterebbe solo di preservarlo con impianti moderni dove gia’ ne esistono di antichi e inefficienti