Vie crucis, a ciascuno la sua

Circola in questi giorni di Quaresima sui social l’immagine di un alpinista polacco dal volto devastato per una scarica di pietre durante il tentativo invernale al K2. Alpinismo che vorrebbe bucare gli schermi, anche se oggi ci vuole ben altro per farlo. Salvo errori, la stampa generalista ha ignorato l’episodio. Anche il salvataggio di una “naufraga” al Nanga Parbat dopo la morte del suo compagno miseramente abbandonato in un crepaccio ha avuto scarsa eco. Ma ciò non toglie che al prossimo TrentoFilmfestival l’episodio possa diventare (allegria!) l’argomento della tradizionale serata alpinistica. Anche senza scomodare la montagna assassina, di vie crucis certamente non volute la cronaca di questi tempi ne offre già in abbondanza, altro che alpinismo.

Incidentalmente va notato che talvolta gli alpinisti ci tengono a mettere in mostra i segni lasciati sul corpo dalla montagna canaglia che si oppone alle loro conquiste. Un po’ come i duellanti un tempo erano fieri delle cicatrici sul volto provocate dalle sciabolate dell’avversario. Discusso e ancora oggi discutibile è il caso di Kurt Diemberger che nel 2000 esibì pubblicamente, esponendole a Salisburgo alla mostra “Der Berg Ruft”, tre falangi della mano destra amputate dopo che sopravvisse nel 1986 a una sciagura a quota ottomila mirabilmente raccontata nel suo libro “K2 il nodo infinito”. L’americano Beck Weathers, l’anatomopatologo sopravvissuto nel 1996 all’aria sottile dell’Everest che lo ha massacrato portandogli via la mano destra e tutte le dita della sinistra, sorride invece nelle pagine di “Life” senza il naso e con via un brandello di zigomo: felice di averla scampata, abbraccia la moglie in un’immagine esclusiva che suscita orrore e compassione ma che ha di sicuro fatto salire la tiratura della rivista. Su quest’esperienza Beck Weathers scrisse poi un libro diventato (magra consolazione) un best seller. S’intitola “A un soffio dalla fine” e, se qualcuno è voglioso di leggerlo, è pubblicato in Italia da Corbaccio.

In tempi di Quaresima si riaffaccia alla ribalta delle “Buone notizie”, inteso come supplemento illustrato del Corriere della Sera, anche Isabel Suppé, scalatrice italo argentina. La sua è una storia di coraggio e di lotta per la sopravvivenza in seguito a un gravissimo incidente nelle Ande. L’aveva raccontata lei stessa qualche anno fa nel libro “Una notte troppo bella per morire” (Priuli & Verlucca, collana “I licheni”, 17,50 euro). Ma niente è più inedito della carta stampata e ora quella storia torna a raccontarla il Corriere del 20 marzo 2018 in forma di graphic novel con gli eleganti disegni di Giancarlo Caligaris. “Quando Isabel è caduta nel canalone di Apolobamba non sapeva di avere in grembo l’impresa più bella del suo futuro”, si compiace il supplemento del Corriere. La rediviva Isabel era infatti in attesa di due gemelle. Miracolo, miracolo. Se l’è cavata con numerosi interventi chirurgici puntualmente da lei descritti nel libro citato. Salve anche le gemelle. Ipotermia, sete, allucinazioni? Inezie per una donna “che non si arrende alle cadute”.

Accorante resta dopo più di mezzo secolo la foto in bianco nero di un affranto Maurice Herzog quando nel 1950 pagò la conquista dell’inviolato Annapurna con estese amputazioni a mani e piedi. Menomazioni che, nella grandeur della Francia, contribuirono a farne un eroe nazionale e un sindaco esemplare di Chamonix. Ha fatto il giro del mondo anche il primo piano del lecchese Claudio Corti, altro illustre rappresentante di questi cirenei disposti a salire su un ipotetico Golgota pur di coprirsi di gloria sulle vette. E’ il 1956. Corti ha il volto devastato dalle scariche di pietre dell’Eiger. Per salvarlo si sono mobilitati soccorritori da tutte le Alpi. Suo proposito era di realizzare la prima salita italiana lungo la parete nord conquistata nel ’38 da una nazicordata con giustificata soddisfazione, all’epoca, del Fuhrer. Corti è l’unico sopravvissuto di quattro alpinisti alla tremenda avventura mirabilmente raccontata da Jack Olsen in “Arrampicarsi all’inferno”, ma ha ancora la forza di abbozzare un sorriso mentre uno dei suoi compagni aspetta invano di essere salvato e degli altri due non c’è più traccia.

La rassegna potrebbe continuare a lungo. No, nessuna volontà di attentare all’immagine dell’alpinismo, di offuscarne la sacralità. Ma non si può non rendere omaggio in questi giorni di quaresima al coraggioso maresciallo André Blanc. Non cercate però il suo nome nelle storie dell’alpinismo. In una rara immagine che qui pubblichiamo il sottufficiale appare con il volto straziato dal gelo nel 1956 dopo avere invano tentato di portare aiuto, ai comandi del suo elicottero Sikorsky precipitato, agli sfortunati “naufraghi” del Monte Bianco Henry e Vincendon. I due, prima che scoppiasse la bufera, si erano legati alla corda di Walter Bonatti per poi decidere di scegliere, quando le cose stavano degenerando, un’altra via rispetto al più esperto capocordata. Una via che però si è rivelata una scorciatoia verso la catastrofe. Una tremenda via crucis. La foto mostra il maresciallo raggomitolato nel suo letto di ospedale, il volto sfigurato. Alle sue spalle i ritratti dei suoi bambini posati sul comodino. Eroe non per scelta ma per necessità. Viene da pensare a quanto scrisse l’abate Henry (1870-1948) nei suoi “Pascoli del sole” ripubblicati nel 2011, “La tormenta, il freddo, l’uragano…Quando la montagna è occupata da cotesta canaglia”, osservò il religioso, “niente da fare: il vero alpinista deve avere il coraggio di salvarsi in tempo”. Salvarsi in tempo? I consigli dell’abate Henry sono considerati Vangelo, ma evidentemente non sempre è possibile metterli in pratica quando si lotta ad armi impari con l’alpe e con il destino cinico e baro, e/o quando la scalata si trasforma in una via crucis mettendo a dura prova l’integrità fisica di uomini pur sempre disposti a rischiare il tutto per tutto in nome dei propri ideali. E quando purtroppo ne va anche della vita o dell’integrità fisica di chi con senso del dovere corre in loro soccorso. Non per pietà ma per orgoglio di casta, come direbbe Gianni Brera. Da vero cireneo. (Ser)
