L’uomo dal passo d’oro

Pontifex maximus dello sci di fondo, la figura di Franco Nones è riemersa dall’oblio grazie al documentario “A passo d’oro” di Lia e Alberto Beltrami. E merito del Milano Mountain Film Festival (Mimoff) e dell’attivissima sottosezione (del Cai) Edelweiss è stato l’averlo presentato il 26 ottobre con l’intervento di un attempato marcialonghista che ha rievocato gli anni in cui questo trentino ascetico e silenzioso imperava sui campi di neve delle valli di Fiemme e Fassa in occasione dell’annuale Marcialonga. Correva l’anno 1971 quando per la prima volta sulla piana di Moena un colpo di cannone diede avvio alla famosa carica dei bisonti preceduti da Nones che all’epoca gareggiava ancora da par suo e salì sul podio battuto soltanto dal gardenese Ulrico Kostner, zio della celeberrima pattinatrice Carolina e della discesista Isolde che si coprì di gloria sulle piste di tutto il mondo. Erano per l’Italia anni di piombo, ma sulle nevi trentine splendeva il sole quando i primi concorrenti salivano dalle città della pianura per affrontare con gli sci quei maledetti 70 chilometri da Moena a Cavalese. Ad accoglierli con Nones, che nel frattempo aveva iniziato a importare dalla Svezia i famosi Jarvinen di legno di betulla e già che c’era si portò in italia la fidanzata Inger poi diventata sua moglie, c’erano gli inventori della Marcialonga. Tra questi Giulio Giovannini, Mario Cristofolini, Nele Zorzi e Roberto Moggio che si dice abbia inventato quel termine fortunato, diventato sinonimo di estenuanti galoppate.

Franco Nones nella foto sopra il titolo ai tempi del trionfo ai Giochi olimpici del 1968 e oggi, settantaseienne, in un fermo immagine del film “A passo d’oro” di Lia e Alberto Beltrami.

La Marcialonga accese subito gli entusiasmi per quello che allora si definiva sci nordico in qualche modo contrapposto allo sci alpino. La fama di Nones era deflagrata nel 1968 con il suo trionfo nella 30 chilometri ai Giochi di Grénoble. Stupì che un terroncello come lui si fosse imposto sui giganti nordici, incontrastati signori del fondo. Una vittoria individuale da parte degli italiani in questa specialità non si era mai avuta ai Giochi. Dal trionfo di Nones a Grenoble nel 1968 passarono poi altri 38 anni perché Giorgio Di Centa agguantasse ai giochi invernali di Torino nel 2006 un altro oro individuale nel fondo maschile. Un’eternità. A dare una mano al fondo per farlo uscire dalla semi clandestinità fu la circostanza che i Giochi erano stati trasmessi per la prima volta in diretta televisiva nel 1964 da Innsbruck. E Grénoble, quattro anni dopo, rappresentò sul piano della comunicazione un ulteriore balzo in avanti per volere di Georges Pompidou. Claude Lelouch girò il film “Treize jours en France”. Telecamere erano in funzione su tutti gli scenari dei Giochi. La scena era occupata in special modo dall’astro Jean Claude Killy che entrò nella leggenda vincendo le tre prove di sci alpino né più né meno come l’austriaco Toni Sailer aveva fatto nel 1956 a Cortina.

Nones si mise in luce superando tutti gli scandinavi e anche il famoso finlandese Eero Mantyranta, sette volte medaglia d’oro dal 1960 al 1968. Alla sua vittoria si affiancarono le medaglie d’oro di Erica Lechner nello slittino e del bob guidato da Eugenio Monti. Era, come si è detto, il riscatto dell’Italia “terrona” dello sci in una disciplina nordica che imponeva sacrificio e fatica e che poco sembrava corrispondere con l’immagine dello sportivo italiano.

Il distintivo che veniva dato nel 1972 a ogni concorrente della Marcialonga.

Chiamarlo sci nordico faceva fino. Bengt Herman Nilson, coach della nazionale italiana di fondo, scrisse il manuale “Sciare come al nord”. Una bibbia. Il risveglio d’interesse per il fondo italiano era già in corso da qualche anno. Due i nomi di grandi sciatori italiani ma “nordici” che bucavano (sommessamente) gli schermi: il bellunese Marcello De Dorigo e il trentino Giulio De Florian. De Dorigo aveva sconfitto i fondisti nordici nel ’62 a Schilpario. Ma ancora meglio si era comportato a Seefeld nelle gare preolimpiche del 63 sbaragliando tutti nella 15 chilometri. Purtroppo durante un allenamento in Svezia si perse nottetempo per i boschi e sopravvisse per miracolo con gravi congelamenti. Marcello fu costretto ad abbandonare le gare ma si procurò delle scarpe speciali per partecipare alla Vasaloppet. De Florian si fece invece onore ai Giochi di Squaw Valley e di Innsbruk. Nel ’66 conquistò il bronzo ai Mondiali di Oslo nella staffetta con Franco Nones, Gianfranco Stella e Franco Manfroi. Nella 30 km di Grénoble vinta da Nones arrivò quinto percorrendo gli ultimi chilometri tra il pubblico che all’annuncio del successo di Nones aveva cominciato a invadere la pista ostacolandogli il passaggio.

Il raschietto per rimuovere il temuto zoccolo di neve sotto le solette, oggi una rarità come l’astrolabio del navigatore Vasco de Gama…

Non va dimenticato che il ’68 è stato l’anno della rivolta giovanile. L’ansia di rinnovamento colpiva tutto e tutti e Nones rappresentò sicuramente un modo più “etico” di sciare, alternativo allo sci opulento delle grandi stazioni invernali dove gli “abominevoli sciatori”, per dirla con Bruno Bozzetto, erano costretti a passare le ore in coda per guadagnarsi una discesa in pista. Nel fondo invece niente code, talvolta ci si batteva addirittura la pista nei boschi in perfetta e beata solitudine. I primi sci marcati Jarvinen o Edbyns erano fragili e sottili, costruiti in legno di betulla. Era indispensabile sciolinarli e per farlo occorreva una certa dimestichezza con cere e unguenti appiccicosi chiamati klister, skare, grunvalla. Le scarpe erano di pelle di canguro, impermeabile e traspirante. Poi per la buona sorte dei canguri, vennero confezionate con robusto materiale sintetico così come per gli sci si risparmiarono le betulle e si adottò la plastica con risultati sulle prime poco entusiasmanti.

La Marcialonga rappresentò la conquista di una rinnovata libertà. Libertà di vivere un giorno da leoni, tutti insieme appassionatamente. Con un solo limite: le donne non potevano per regolamento partecipare ma partecipavano lo stesso camuffandosi con baffi finti prima che alla quarta edizione il divieto fosse tolto. Al traguardo la squalifica era inevitabile. Lasciate le gare e toltosi la divisa di maresciallo della Guardia di Finanza, l’intraprendente Nones aprì a Castello di Fiemme un negozio di articoli sportivi. Fu quella la mecca dove i “bisonti” (così venivano beffardamente chiamati i primi marcialonghisti) andavano ad approvvigionarsi di sci, scioline e tute attillate di fabbricazione scandinava seguendo i preziosi consigli del pontifex maximus.

L’avanzata dei “bisonti” nelle valli di Fiemme e Fassa.

Fare il fondo venne considerata con una punta di esagerazione una scelta di vita, come sostiene Nones. Vero è che noi fondisti ci sentivamo, un po’ presuntuosamente, diversi rispetto ai comuni mortali. Tra i guru cittadini, il milanese Camillo Onesti si definì un esagitato agonista e fu l’artefice come coach dei trionfi di Manuela Di Centa alle Olimpiadi di Lillehammer negli anni Novanta. Carletto Sala, portiere alla casa di riposo Giuseppe Verdi, sciò ininterrottamente per 24 ore al Pian del Tivano e divenne un idolo. A Milano i seguaci di Nones si dividevano tra il Fior di Roccia e il Cross Country, guardati con sospetto o compatimento da quelli dell’Edelweiss che sotto la spinta di Gianni Rizzi si dedicavano a un fondo più pacatamente escursionistico adottando sci con le squame che non comportavano l’uso dell’odiata sciolina. La stagione delle maratone cominciava in gennaio con la Marcialonga, ma per chi aspirava a ulteriori giorni da leoni la scelta era ricca ed esaltante: in vetta alle aspirazioni c’erano la Vasaloppet, la Transsjurassienne, la Tervahiito, la Finlandia Hiito, la Koasalauf e l’immancabile Skimarathon dell’Engadina che chiudeva la stagione. Erano drogati dalla fatica quegli esagitati fondisti milanesi del Fior di Roccia e del Cross Country, ma più che mai convinti che… “sci fondo vita lunga” come era scritto sui muri del Centro Fondo di Asiago. Facevano eco gli svizzeri: Langlauf Lieben Langer, lo sci allunga la vita. Non era e non è mai stato del tutto vero, ma era bello crederlo. E dopo ogni sgroppata ci si sentiva sicuramente migliori.

Da Dameno e da Colombo Sport i milanesi acquistavano tute svedesi e sembravano vestiti da gondolieri: calzettoni rossi, braghe blu al ginocchio, giubba bianca o gialla, papalina rossa. Si cominciò a pagare un ticket in tutti gli anelli: nel Canton Ticino a Campra, a San Bernardino, in Lombardia al Pian del Tivano e ai Piani di Bobbio, nelle Dolomiti al Lavazè e all’Alpe di Siusi, in Val d’Aosta in Valle Ferret e a Cogne. Ma soprattutto per i più fortunati c’era l’Engadina. Lungo i binari si perfezionavano i passi: passo e spinta, passo triplo, passo finlandese. Poi cambiò tutto per merito o colpa di un certo Pauli Siitonen, un ragazzo svedese biondo che vinse nel 1972 la Marcialonga lasciando tutti di stucco: pattinava! Era nato il passo Siitonen che richiedeva però piste più larghe e ben battute, sci più corti, bastoncini più lunghi.

Il passo Siitonen fu subito proibito in tutte le maratone, Marcialonga compresa. A Sankt Moritz comparvero lungo le piste i cartelli “Siitonen verboten”, un divieto volto a evitare che i pattinatori distruggessero i binari accuratamente tracciati con svizzera meticolosità. Con tono sprezzante quel modo di sciare era definito “passo sega” dai puristi. E a storcere il naso nei confronti del nuovo modo di sciare fu proprio sulle prime il pontifex maximus Franco Nones che suggerì, per stroncare sul nascere la scivolata spinta pattinata che alterava valori e risultati, di ritornare a battere le piste con la motoslitta anziché con i mastodontici gatti delle nevi. In tal modo, eliminando lo spazio necessario per eseguire il passo Siitonen, il fondista sarebbe tornato al vecchio passo alternato e alla scivolata spinta (sci uniti e appoggio simultaneo sui bastoni definito dai nordici con il termine stawug). Il nuovo stile fece comunque l’ingresso nella didattica all’Interski 82 di Sesto in Pusteria.

Nones aveva visto giusto quando trepidava per le sorti di quel modo elegante di “sciare come al nord” a passo alternato, tutti incanalati uno dietro l’altro sui binari. Passi e movenze che oggi pochi sanno eseguire come si deve. Va aggiunto per concludere che, per praticare il fondo pattinato più semplice e ripetitivo dello stile classico, occorrono piste larghe come autostrade e neve in quantità. Ma di neve ce n’è sempre meno e non c’è niente di più triste che fare il fondo sulla neve artificiale. Se poi, dopo una nevicata, ci si accontenta di zampettare nei boschi, a quel punto un paio di ciaspole bastano e avanzano echissenefrega di sci e scioline. (Ser)

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