L’uomo di ghiaccio alla fine ebbe paura

Solitario e di poche parole, temperamento glaciale come lo definisce Giuseppe “Popi” Miotti che ha scalato con lui, Gianni Comino (1952-1980) era una vera macchina da guerra sulle grandi difficoltà. Questo risulta dal bel libro di Paolo Castellino “C’è un tempo per sognare” (Idea Montagna, 173 pagine, 19 euro). Che si sentisse incompreso questo alpinista piemontese, che fu interprete dell’arrampicata italiana su ghiaccio effimero dei couloir fantasma, lo ammise lui stesso durante una pubblica conferenza. Ci voleva probabilmente un appassionato come Castellino, laureato al Politecnico e competente di alpinismo, per entrare nell’universo di Comino e prendere le misure di quella passione che lo divorava e che condivideva con Gian Carlo Grassi, altro abbonato ai grandi rischi. Ora è plausibile che il libro, scritto con la collaborazione della famiglia Comino che del congiunto conserva un ricordo talvolta struggente, possa essere inteso come “un grande inno al valore della vita e dell’amicizia” come si legge nell’ultima di copertina. Questo non toglie tuttavia che la fine prematura di Comino incomba su tutta la struttura letteraria, fino a condizionarne la lettura. Si può e si deve sicuramente condividere l’interesse di Alessandro Gogna (che firma la prefazione) “per una novità testimoniata, che appare precisa: la paura”. In realtà risulta che la paura sia stata compagna di scalata di Comino solo nell’ultima impresa solitaria sul monte Bianco, quella che gli è costata la vita. Una paura foriera di sventura, non quella paura “anticamera della prudenza” che si accompagnava alle esperienze estreme di Riccardo Cassin. Che cosa di colpo si è rotto nel perfetto sistema nervoso di Comino? Gogna è perplesso, perfino imbarazzato nell’affrontare l’argomento. “Le grandi imprese sono tanto più grandi se non c’è sensazione di paura nei protagonisti, solo il timore e il rispetto per la grande montagna o la grande incognita. Perché sono in stato di grazia. Mi piace pensare che tutte le grandi esperienze di Gianni siano state precedute da una serena attesa, meno in questa. Ma non ho le prove di quanto vado affermando”.

Osò l’inosabile sul ghiaccio effimero.

Quel giorno sul Bianco mentre dal bivacco Ghiglione un compagno seguiva le sue mosse sotto l’incombere dei seracchi fatali, Comino avrebbe potuto scegliere di non salire. Non lo ha fatto. “Qualunque sterile computo di calcolo delle probabilità”, è la conclusione di Gogna, “dismette la sua efficacia di fronte al riconoscimento della propria paura, ma forse Gianni non era sufficientemente allenato in questa disciplina. Forse aveva solo deciso di giocare fino in fondo, anche quando qualcosa si era rotto dentro di lui. Lasciando a noi il pallino”. Giocarsi la vita fino in fondo? Rileggere la reazione di Grassi sulla temeraria scalata all’Hypercouloir alle Grande Jorasses fa venire la pelle d’oca. “Il passaggio chiave della salita, una cascata verticale di 40 metri, impegnò Gianni al limite delle sue possibilità per ben quattro ore…”. “Ma no, non siamo mica matti ma neppure drogati”, si giustificò Comino. Ma forse la parola definitiva va lasciata al suo compagno Grassi: “Con Gianni Comino, insieme, penetrammo in pianeti di sconcertante e intatta bellezza; e fu in quei momenti, chiari, precisi, che si percepì l’effimera sensazione di non appartenere né al regno dei vivi e neppure a quello dei morti”. (Ser)

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