Bignami, coraggioso e sfortunato. Il “suo” rifugio ha 60 anni

Sessant’anni fa, nell’estate del 1957, s’inaugurava in Val Malenco il rifugio Roberto Bignami del Cai Milano posizionato su un poggio sovrastante il lago artificiale di Gera, a 2.401 metri di quota. Il rifugio venne intitolato all’alpinista milanese morto nel 1954 in Himalaya durante la spedizione guidata da Piero Ghiglione al Monte Api. La fine di Bignami, precipitato nelle acque di un torrente, è raccontata nella corrispondenza che pubblichiamo del suo compagno di spedizione Beppe Barenghi. Un documento in presa diretta di straordinario interesse, in cui Barenghi descrive in ogni particolare rivivendola come in una moviola, la repentina scomparsa del compagno annunciando il suo mesto ritorno in Italia. Senza immaginare che un tragico destino lo attende nella vittoriosa scalata al Monte Api e che la stessa sorte toccherà al compagno torinese Giorgio Rosenkrantz.
Ai tre ardimentosi e sfortunati compagni di spedizione, Ghiglione (alla cui personalità ha reso omaggio nel 2016 il Museo Nazionale della Montagna con una mostra curata da Danilo Fullin e Roberto Serafin con il coordinamento di Veronica Lisino) dedicò l’appassionante volume “Eroismo e tragedia sul Monte Api” (Garzanti, Milano, 1954), mai più ripubblicato. Le spoglie di Bignami, Barenghi e Ronsenkrantz rimasero per sempre nell’allora inesplorato Nordovest del Nepal. Con i suoi 7140 metri di quota, l’Api fu il primo settemila vinto da una spedizione italiana. Per raggiungerlo, i quattro hanno dovuto percorrere un massacrante cammino lungo la valle Chamlia, fra dirupi e giungle, guadi e pericoli mortali, tra i quali il viscido tronco gettato su un torrente costato la vita a Bignami che incautamente non si era messo in sicurezza. E’ un peccato che gli eroi della spedizione al monte Api del 1954 continuino a galleggiare tra i flutti di un oblio purtroppo totale. Vero è che Ghiglione, a differenza dei concomitanti eroi del K2, si autofinanziava e che il Cai lo ignorava e tuttora lo ignora sistematicamente.
Gli alpinisti dell’Api, pur vittoriosi al prezzo della vita, non ebbero sostegni finanziari e medaglie e, per colpa del destino cinico e baro, non riempirono best seller con interminabili requisitorie sui propri meriti e gli altrui demeriti. Il più entusiasta degli alpinisti di Ghiglione fu proprio Bignami, “candido sognatore ma spirito riflessivo, alpinista dall’animo purissimo” come lo definì il capo spedizione. Bignami non era l’ultimo arrivato nell’alpinismo: si era più volte legato alla corda di Walter Bonatti. La pubblicazione della relazione sulla sua scomparsa – che tempestivamente Barenghi mandò agli amici milanesi dal remoto Nepal – vuole essere anche un invito a rendergli omaggio salendo al “suo” bellissimo rifugio che la madre Clementina Agretti Bignami volle costruire donandolo nel ‘57 alla Sezione di Milano del Club Alpino Italiano. (Ser)

L’annuncio della tragica fine. Carissimi, è successa una disgrazia enorme: non sappiamo più cosa fare: è scomparso Roberto Bignami! Tre giorni fa tornavamo verso valle dal nostro campo base: il sentiero attraversa 3 o 4 volte il torrente, anzi il grosso fiume a carattere torrentizio. All’andata avevamo costruito alcuni ponti con i tronchi d’albero, perché i tronchi costruiti vengono portati via ogni anno dal monsone. Siamo giunti al ritorno all’ultimo ponte di tronchi. Erano passate da poco le 10 di mattina. Rosenkrantz e alcuni portatori hanno attraversato subito il ponte. Io mi sono fermato, così pure Ghiglione, e ho fato fermare i coolies: attendevo una corda da tendere sopra il ponte, come abbiamo fatto all’andata. E’ arrivato lo sherpa colla corda. La corda è stata stesa attraverso il fiume: io ho voluto che fosse stesa doppia in modo che si passasse tra le due parti come parapetti: così si era fatto all’andata. Roberto si era fermato accanto a me: a un certo momento mi ha chiesto perché eravamo fermi: gli ho detto che si attendeva che le corde fossero tese: gli ho anche detto che non avevo intenzione di finire nel fiume, come Ferlet al Fitz Roy. Mi ha detto “bem” e basta. Appena le corde sono state tese, prima ancora che fossero aperte, senza dir nulla Roberto si è alzato e si è avviato sul ponte costituito da 3 tronchi legati assieme. Non ho fatto tempo ad avvisarlo che era già a metà del ponte: purtroppo invece di mettersi fra le due corde, con le corde sotto le ascelle, ha afferrato tutte e due le corde insieme colla sinistra. Ho gridato che le corde fossero tenute ben tese. Quando è stato quasi sull’altra riva, Roberto ha avuto una oscillazione verso destra: si è afferrato anche con la mano destra alla corda: ciò facendo ha perso l’equilibrio definitivamente e si è abbassato col corpo verso destra puntando i piedi sui tronchi. I coolies si sono sporti in suo aiuto: Roberto riusciva ad afferrare il polso di un portatore, ma intanto era caduto nella corrente ovunque molto veloce: si tratta di una rapida continua, con l’altro braccio il portatore doveva stare ancorato alla roccia per non andar via: Roberto ha resistito un po’, poi ha lasciato prima la corda, poi il polso del coolie. E’ stata questione di attimi: impossibile intervenire. E’ subito scomparso nei gorghi ed è riemerso poco sotto in una gora vorticosa. Sulla riva Rosenkrantz gli era vicino e gli ha gridato e teso la picca: si è avuta la sensazione che Roberto lo sentisse e tentasse di liberarsi del sacco: poi si è girato, è stato riafferrato dalla corrente ed è scomparso.

Rosenkrantz, i coolies, gli sherpas sono balzati come pazzi lungo la rapida sulla riva destra sperando di vederlo riaffiorare: io dall’altra sponda sono corso fin dove le rocce a picco non me l’hanno impedito. Più nulla. Tornando abbiamo visto galleggiare nella gora il sacco di Roberto. Mi sono calato a corda doppia: la roccia faceva grotte ed era impossibile scendere oltre: comunque mi sono abbassato per vedere se nella cavità, oltre al sacco che continuava a entrare e uscire, non fosse trattenuto anche Roberto: nulla. Mi hanno ritirato su piuttosto con grosse difficoltà. Un coolie è riuscito a recuperare il sacco con un rampino.
A valle nel secondo giorno di ricerche abbiamo trovato resti straziari del casco di Bignami. Ma di lui, del suo corpo, nessuna traccia. Abbiamo percorso per ore e ore in due giorni le pericolose rive entrando in grotte, guardando ogni buco: nulla. Il fiume è impetuosissimo e irto di rocce con continui salti, certo il corpo è stato sbriciolato, basta vedere che cosa è successo al casco dopo poche centinaia di metri. Nessuna speranza a valle. Il fiume si incassa per chilometri e chilometri in alte roce. Nulla da fare. Quando vi giungerà questa mia saremo sulla via del ritorno. Io fisicamente sto bene. Vedete come si possa comunicarlo alla madre: ritengo tramite lo zio. Torneremo non subito. Siamo abbattuti e adiamo adagio. Tanti baci e arrivederci.
f.to Beppe