Il lato oscuro di un meraviglioso patrimonio

L’ingiallito foglio d’ordini della Presidenza generale reca la data del 5 dicembre 1938, l’anno delle famigerate leggi razziali, ed è custodito in un faldone della Sezione di Milano del Cai. La consultazione era RISERVATISSIMA quando “c’era lui”, come risulta in maiuscoletto nel dattiloscritto. Oggi il documento dovrebbe essere a disposizione di tutti, ma non è detto. C’è ancora forse chi lo considera erroneamente uno scheletro da tenere celato in un armadio. Come se non fossero trascorsi quasi ottant’anni e ancora ci fosse qualcosa da nascondere nella pur sempre gloriosa storia del sodalizio. Ciò non toglie che il documento faccia parte della copiosa documentazione, in parte inedita, a cui ha attinto Stefano Morosini per ricostruire la storia di quegli anni attraverso le vicende dei rifugi alpini in Alto Adige /Sudtirol “come questione nazionale (1914/1972)” (Il meraviglioso patrimonio, Fondazione del Museo Storico del Trentino, 2017, 302 pagine, 20 euro). Per essere più precisi, nel documento la Presidenza generale del Cai specifica, in calce, che le disposizioni sulla difesa della razza all’interno delle sezioni “hanno carattere strettamente riservato e non dovranno, in nessun caso, essere comunicate alla stampa o, per iscritto, agli interessati”. Due sono le categorie d’interessati. Dapprima vengono i dirigenti centrali e periferici (anche componenti di commissioni) ai quali si richiede che siano esclusivamente “di razza ariana pura”. Che cosa significa “pura”? “Nel settore del Partito”, si legge nel documento, “e, quindi, in quello dello sport, agli effetti delle cariche direttive viene considerato alla stregua degli ebrei anche chi abbia un solo genitore ebraico”. Per quanto riguarda i soci ordinari, la Presidenza del CAI sembra invece mostrarsi di manica larga. “Eventuali discriminati, nonché figli di matrimoni misti, purché cattolici al 1° ottobre XVI, possono far parte di società sportive solamente come soci”. E quale è la sorte dei discriminati? Per loro non ci sono scuse, la loro presenza nel CAI, inteso come Centro Alpinistico Italiano, va considerata preclusa. “Tutti coloro che devono essere esclusi dal Cai a norma delle disposizioni di cui sopra”, si legge nel documento che mountcity è stato in grado di consultare, “saranno considerati dimissionari anche se iscritti alla categoria dei soci vitalizi ed anche se hanno pagato la quote dell’anno in corso”. Quota, va precisato, che se richiesta poté, a quanto si legge, essere restituita.
Mussolini, con toni raggelanti, aveva appena annunciato in pubblico in quel 1938 a Trieste le “soluzioni necessarie” per affrontare il “problema ebraico” in quanto “problema razziale”, spiegando che per mantenere il “prestigio dell’impero” occorreva “una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime”. La perversione burocratica produsse decine di circolari grottesche non solo all’interno del Centro Alpinistico Italiano. I ricercatori hanno trovato un verbale nel quale il presidente del Coni e quello della Federcalcio dispongono la cacciata degli atleti e degli sportivi ebrei: come Arpad Weisz, l’allenatore che vinse uno scudetto con l’Inter e due con il Bologna e morì ad Auschwitz. Si spera in ogni modo che in vista dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali la trasparenza su queste perversioni sia assoluta, per il bene di tutti e sopratutto dei giovani che le ignorano e, poveretti, ci scherzano sopra.

Tornando al libro di Morosini (che sul clima all’interno del CAI in quegli anni fa encomiabilmente chiarezza), nell’esaminare gli sviluppi dell’accordo con il Deutsche Alpenverein in merito ai rifugi del Sud Tirolo, l’autore mette a fuoco quello che definisce il patto d’acciaio alpinistico, in anticipo di alcuni mesi su quello firmato dai ministri degli esteri Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop. L’accordo venne sottoscritto nel febbraio del 1939 a Garmish-Partenkirchen dal presidente del CAI Angelo Manaresi, uno dei maggiori esponenti dello squadrismo bolognese, e dal suo omologo presidente dell’Alpenverein tedesco Arthur Seyss Inquart che nel 1946 fu processato e condannato a morte per i suoi crimini a Norimberga. A seguire, si registrò l’emissione da parte di Manaresi di un foglio disposizioni, il numero 121 del 26 maggio 1939, che modificava l’articolo 12 dello statuto in questi termini: “I soci del CAI, che devono assolutamente appartenere alla razza ariana, si distinguono in onorari ed effettivi”. Come si è visto, il CAI fascista non si fece pregare nel fare da megafono alle leggi razziali. E’ accertato che con sei mesi d’anticipo a Trieste la Società Alpina delle Giulie “epurò radicalmente” i propri soci di religione ebraica. Ugo Ottolenghi di Vallepiana, uno dei più alti dirigenti del sodalizio, membro del Club Accademico Italiano, si dimise da ogni incarico. “Il volonteroso zelo antisemita assunto dal CAI”, precisa Morosini, “si espresse anche nella nomenclatura dei rifugi. Nel gennaio 1939 il fascistissimo Manaresi emanò un foglio disposizioni con il quale le sezioni proprietarie di rifugi alpini intitolati a nomi ebraici dovevano provvedere senza indugio, al cambiamento dei nomi stessi, dandone comunicazione alla presidenza del CAI”. Passata quest’orrida ventata, nel dopoguerra il CAI tornò faticosamente alla propria indipendenza, e alpinisti perseguitati dal fascismo come Massimo Mila fecero cordata, d’amore e d’accordo, con esponenti delle camicie nere come l’udinese Oscar Soravito.

“Il sodalizio superò”, scrive ancora Morosini con la schiettezza che distingue i suoi scritti su argomenti così a lungo taciuti, “il ricordo doloroso della parentesi fascista, tuttavia non perdette, per alcuni versi, una certa enfasi nazionalista”. Di questa enfasi fu a suo dire testimonianza nel 1954 la spedizione al K2 “con tutto il portato di retorica, l’imponenza dei mezzi, le esclusioni, le amarezze e le polemiche che si trascinò, anche con risvolti giudiziari”. E ancora una volta dall’imperdibile libro dello studioso emerge la volontà di mostrare le contraddizioni e la debolezza delle prese di posizione di tipo nazionalista e la banalità del male espressa dai vari nazionalismi contrapposti. Un male che contagiò i nostri padri e di cui non si parla mai abbastanza. O di cui si parla per partito preso come rivela la frase “Il fascismo ha reso grande l’Italia” letta durante l’estate 2017 in un cartellone di “Noi con Salvini”. La storia dei rifugi dell’Alto Adige è piena di pagine per noi italiani decisamente mortificanti come risulta dal libro di Morosini, ed è bene che non se ne cancelli il ricordo in questi tempi cupi, con il razzismo che dilaga negli stadi costringendo a chiudere le curve nord imbrattate di adesivi razzisti con le immagini di Anna Frank. Avviso agli avversari: attenti che finirete bruciati come lei. Ma si può andare avanti così? (Ser)
Per saperne di più sul libro di Morosini: www.museostorico.it