Mini sci, lamine avvitate. Così Ghiglione esplorò il Kibo

Nella conquista del Queens Mary Peak (7422 m) nel 1934 Piero Ghiglione (1883-1960) calzò sci di betulla dalla sciancratura modesta (8.5/7.5/8): difficili da manovrare ma ritenuti sicuri tra i crepacci. Al Kibo nel 1937 si portò invece i suoi adorati piccoli sci di frassino di 120 centimetri di lunghezza, lamine avvitate, attacco Thorleifhaugs, grazie ai quali poté “cacciarsi nei più reconditi meandri dell’immenso anfiteatro di ghiaccio”. La seconda di queste reliquie è esposta fino al 15 gennaio 2016 al Museo nazionale della montagna (Torino, Monte dei Cappuccini). La mostra temporanea, curata da Danilo Fullin e Roberto Serafin con il coordinamento di Veronica Lisino, s’intitola “Piero Ghiglione. Un giornalista per l’avventura”. Ma il titolo non rende omaggio alla grande passione, lo sci, dell’ingegnere-alpinista-giornalista di Borgomanero. Perché la mostra vuole essere una radiografia di questa sua passione che si dipana in decine d’immagini e cimeli. Ghiglione inventò anche un modello di sci dalle code appuntite e rialzate come le spatole con cui praticava il doppio telemark: in avanti e all’indietro. Sciare per Ghiglione era un’arte, come emerge tra le righe del manuale Lo sci e la tecnica moderna (1928). Vi si possono ammirare le sequenze a passo uno dei principali “movimenti” in stile telemark e kristiania. Grazie alla sua fama venne assegnato durante la Prima guerra mondiale come ufficiale del genio ai corsi sciatori. Ideò il Trofeo Mezzalama partecipando nel 1933 alla prima edizione per lo Ski Club Torino con Pietro Ravelli e Adolfo Vecchietti. Arrivarono all’8° posto su 14 squadre classificate.
Curioso. Benché ingegnere, Ghiglione utilizza pochissimo all’interno del volume citato la parola “tecnica” che pure appare nel titolo. Il volume si basa su una documentazione fotografica che non ha eguali in altri manuali dell’epoca. Le varie fasi della curva a kristiania vengono descritte con una serie di fotogrammi che oggi, volendoli montare a passo uno, ci restituirebbero sulla moviola la perfezione di quella sciata fluida nonostante l’attrezzatura primitiva e gli attrezzi ancora privi di lamine. La tecnica era quella divulgata dalla scuola austriaca dell’Arlberg: con l’avvitamento del busto che accompagnava la curva e che l’ingegnere applicava correttamente senza mai un capitombolo ricevendo sui campi di Corviglia, a Sankt Moritz, gli elogi dall’amico Marcel Kurz, uno dei più illustri teorici dello sci alpinismo.

Nella prima parte del libro, Ghiglione sviluppa la sua “teoria dei movimenti”, in particolare delle azioni fondamentali di frenaggio, pattinaggio, salto, telemark e kristiania. Denomina questa teoria “la grammatica dello sciatore” avvertendo che essa non è tuttavia sufficiente. Lo sci, appunto, è soprattutto “arte”. “Ogni manifestazione artistica ha due valori ben distinti: uno oggettivo, l’altro soggettivo”, spiega puntigliosamente a pagina 262 del manuale. “Il primo desta l’ammirazione e produce un piacere estetico nello spettatore: ma il secondo suscita tutta la gioia intima e personale dell’artista. Anche lo stile, in quanto è arte, procura gioia allo sciatore. Questo godimento, questo puro piacere fisico e spirituale insieme, però soprattutto spirituale, è tuttavia difficilmente spiegabile con parole, appunto perché è un sentimento: ma certo è vivissimo in chiunque compia con sicurezza una grande discesa di stile. E noi affermiamo …che il gagliardo sciatore, lanciato giù per la china candida e morbida, nella pura e fredda area invernale, sicuro di sé, con l’animo e il corpo tesi nel duplice sforzo, unisce al godimento dell’alpinista e dell’innamorato dell’alpe la somma gioia dell’artista”.
Dello sci Ghiglione fu dunque un profeta entusiasta, autore di tre manuali che all’epoca fecero testo: Sciatore novecento e Manuale di istruzioni sciistiche oltre al già citato Lo sci e la tecnica moderna. Calzava in genere sci leggeri di betulla, “laminati di una composizione di ottone e compensati al di sotto con due millimetri di hickory, italianissimi, dell’ingegner Ettore Ricci di Milano”. Mosso da una curiosità e una passione incontenibili, andò in Lapponia e provò sci lunghi più del doppio di lui, per poi passare all’estremo opposto e sperimentare gli sci cortissimi di 120-130 centimetri che ora sono esposti a Torino (uno solo, in verità).

“Che Ghiglione fosse uno sciatore completo non c’è dubbio”, osserva Giorgio Daidola, esimio studioso e praticante alle alte quote dello sci a telemark. “Prova ne è che fu anche saltatore, e con un curioso modo di atterrare: si sedeva quasi sugli sci per rialzarsi con prodigiosa elasticità, dando un colpo di mani sulla neve. Un giorno saltando si ruppe una gamba. Fu l’unico momento di pausa forzata nella sua vita”. Faceva colpo anche l’abbigliamento di sciatore di Ghiglione. Adolfo Balliano ironizza sui suoi “maglioni a colori e disegni piglia-occhio, berretti a calza con pon pon tipici, giacche a vento a tre quarti, non di certo modelli d’eleganza”. Intuì presto, l’ingegner Ghiglione, il “progresso ineluttabile dello sci” (Rivista Mensile 1927, pag. 138) “anche nel campo dell’alto alpinismo”. E deplorò la cocciutaggine di “alpinisti di ottima fama che si ostinano ad improbe fatiche pur di non usare gli sci”. In questi giorni, a chi per lo sci nutre una passione che va oltre le ordinarie discese sulle bianche e ormai artificiali distese di neve, va consigliata una visita ai Cappuccini alla mostra di Ghiglione, l’uomo che contribuì a far sognare generazioni di sciatori. Un pellegrinaggio forse doveroso. (Ser)