Un ingegnere sulle montagne del MI TO

Si era iscritto nel 1909 alla Sezione di Milano del Cai, ma per una serie di motivi Piero Ghiglione (1883-1960) rimase legato a quella di Torino cui ha destinato, con testamento olografo, venti milioni di vecchie lire perché costruisse a suo nome un bivacco sul Monte Bianco. Ghiglione, al quale il Museo nazionale della montagna dedica a Torino la mostra “Un giornalista per l’avventura” che si chiuderà il 15 gennaio 2017, rappresenta un ponte tra due culture alpinistiche, quella torinese e quella milanese, che secondo gli intenditori presentano connotati diversi. Scalò con grossi calibri piemontesi come Gervasutti e Boccalatte e organizzò spedizioni con alterne fortune insieme con gli amici milanesi. Anche come inviato speciale la sua attività fu equamente ripartita fra importanti testate delle due città. Ghiglione è stato infatti una penna illustre dapprima della torinese Gazzetta del Popolo e successivamente del milanese Corriere della Sera.

Mentre si fa tanto parlare dei concomitanti e rivali saloni del libro di Milano e Torino, mentre si cerca di capire da che parte soffi il vento della cultura, se verso Torino o Milano, la mostra su Ghiglione si dipana su quelle montagne del MI-TO che potrebbero occupare un ruolo centrale nella cultura alpina. Del resto, per approfondire il personaggio di Ghiglione, alpinista giramondo e “inventore” negli anni 20 di quello sci che ben presto sarebbe diventato di massa, occorreva andare a pescare non soltanto nei fornitissimi archivi del Museo Nazionale della Montagna ma anche – ottenuto il via libera della Fondazione Corriere della Sera – nello scrigno di via Solferino dove sono raccolti in forma cartacea e digitale le sue corrispondenze dai cinque continenti. Occorre notare che quelli di Ghiglione, nel secondo dopoguerra, sono ancora gli anni dell’alpinismo da prima pagina. Dalla Patagonia giungono a quell’epoca per telescrivente gli articoli sulle scalate di Carlo Mauri, Walter Bonatti e Cesare Maestri. In prima pagina finisce la purtroppo tragica ascensione del 1959 al Cerro Torre. Dall’Alaska arrivano poi appassionanti reportage sull’impresa di Riccardo Cassin al McKinley nel ’61, corredati dalle nitide tavole di Achille Patitucci che con l’inchiostro di china ridisegna ghiacciai e speroni, attendamenti e cordate, segnalando meticolosamente le quote di volta in volta raggiunte.
Non mancano naturalmente i resoconti sulle scalate che nel frattempo vengono effettuate sulle Alpi, sempre alla ricerca della parete inviolata, dello spigolo non ancora raggiunto: articoli che portano le firme di giornalisti di rango come Egisto Corradi, Emilio Marsili, Guido Tonella, Fulvio Campiotti, Livio Sposito. Leggere di certe esperienze a distanza di più di mezzo secolo fa un effetto particolare. “Nell’articolo scritto sempre di getto si conserva l’immediatezza della notizia”, osserva Danilo Fullin che con Roberto Serafin e Veronica Lisino ha curato la mostra al Monte dei Cappuccini accuratamente allestita da Marco Ribetti, “e immutato rimane ancora oggi il pathos: le parole e le frasi s’inseguono e si accavallano, sembra di ascoltare la voce di chi sta assistendo in tempo reale all’impresa, il titolo a volte offre vertigini da sesto grado. Nel caso di Ghiglione, è lui stesso a raccontarsi anche nelle pagine della Domenica del Corriere. Ad aumentare il richiamo delle sue corrispondenze ‘estreme’ provvede il disegnatore Rino Ferrari che drammatizza le foto originali dell’ingegnere immergendole tra i bagliori di rupi rossastre”.

Vincenzo Gibelli rievocò sulla Domenica, alla morte di Ghiglione, le gesta dell’ingegnere entrato nella leggenda dell’alpinismo e in quella del giornalismo. “Nel mondo alpinistico che tendeva a ignorarlo”, scrisse Gibelli, “Ghiglione si affermò come un gigante, realizzando duecento ‘prime’ sulle montagne di cinque continenti”. Manlio Cancogni, un grande della letteratura e del giornalismo in quegli anni, narrò delle sue imprese in Sport illustrato, aggiungendo all’epopea un tocco di romanzesco. Sulla Settimana Incom Renzo Rossotti indagò sui suoi segreti, su quel nonsoché di inspiegabile “dietro alla formidabile carica di energia che lo spingeva, settantasettenne, sui picchi più alti del mondo”.
Ghiglione rappresentò l’ultima vampata di un alpinismo “irripetibile”, da prima pagina. A partire dalla metà degli anni Ottanta, lo spazio dedicato all’alpinismo sulle pagine del Corriere si ridusse. Non era più il tempo delle grandi spedizioni e il nuovo modo di affrontare le montagne himalayane non destava l’interesse di un tempo anche se sulla Stampa il fenomeno è più sfumato e si nota l’effetto della vicinanza dell’ex capitale sabauda con le sue montagne.
“Nell’archivio di via Solferino”, osserva ancora Fullin che ne è stato il responsabile fino a qualche anno fa, “esiste un vero e proprio tesoro dal punto di vista documentale sulle grandi imprese alpinistiche del secolo con personaggi quali Norton, Mallory, Irvine, Tilman, Shipton, fino ad arrivare a Herzog, Hunt, Hillary, Tenzing, Buhl. La presenza di questo materiale nell’archivio è una chiara testimonianza di quanto in via Solferino sia sempre stato ritenuto importante l’alpinismo e ancora oggi lo sia”. Non è un caso che sia stata la Domenica del Corriere a ospitare la cronaca della scalata al Ruwenzori di un Ghiglione ormai al crepuscolo, legato alla corda prestigiosa del lecchese Carlo Mauri. E che ora sia Torino a rendergli omaggio a 56 anni dalla scomparsa, riesumando quel piccolo universo che l’ingegnere ha saputo crearsi tra le due città facendosi per il suo caratteraccio amici a e nemici equamente divisi. Tra le montagne del MI TO, appunto: quelle che dovrebbero far parte di una rinnovata identità condivisa dalla metropoli dell’Expo che un tempo si definì “capitale morale” e dalla città post industriale che pur essendo a ridosso delle montagne non è mai riuscita a diventarne il centro come sostiene nella rivista on line “Dislivelli” Antonella Parigi, assessora al turismo della Regione Piemonte. (Ser)
Purtroppo conosco molto poco di Ghiglione. Possiedo il suo libro sulla tragica scalata al Monte Api nel 1954 e ho letto quanto ne scrisse Renato Chabod dopo la salita del Couloir du Diable al Tacul, oltre a qualche altra nota qua e là. So che, per permettersi tutti i suoi continui viaggi nel mondo, risparmiava alla lira. È certa la sua passione smisurata per le montagne e l’esplorazione, che lo accompagnò sino all’ultimo. Fino agli anni Settanta – ma forse anche adesso – è stato l’italiano che ha scalato più vette nel mondo.