Folli montagne a Cuneo. E anche l’alpinismo si trasforma in follia

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Il Festival Cuneo Montagna quest’anno è dedicato alla follia. Sopra il titolo un particolare del manifesto.

Fino al 30 novembre 2016 torna a Cuneo il Festival della Montagna organizzato da Provincia, Comune e Uncem Piemonte. Il tema dell’edizione 2016 è la follia, quella di chi affronta la montagna a livelli agonistici, ma anche della follia più comune –  a quanto si legge in un comunicato – “di chi sceglie di rimanere e aprire attività turistiche e di chi investe nonostante le tasse troppo alte, dei turisti che scelgono le vallate, degli amministratori che ogni giorno si mettono in gioco per la comunità che resiste”. Le iniziative vengono ospitate in municipio, nei teatri, al cinema Monviso e al Centro Incontri della Provincia. A insinuare il sospetto che nell’alpinismo si insinui talvolta una vena di follia è stato a suo tempo il grande giornalista e scrittore Dino Buzzati (1906-1972). Sempre attuale infatti appare oggi il suo porsi nei confronti di un certo alpinismo che considerava “una follia” salvo poi ricredersi e tesserne le lodi. Ma lo faceva per non alienarsi le simpatie dei supermen che ammirava e dal fascino dei quali era soggiogato. Del resto anche il fortissimo climber statunitense Alex Honnold oggi nota che un sacco di gente mette in discussione le sue motivazioni. “Ed è singolare”, aggiunge Honnold, “che la gente metta in dubbio anche la mia sanità mentale”.

“Chi più di Dino personifica e sublima il miglior modello dell’alpinista medio?”, si chiese Gabriele Franceschini che fu guida affezionata di Buzzati nel Primiero e notò nel suo affrontare le pareti “curiosità e paura” ma anche “dedizione continua”. Non quanto bastò tuttavia per assicurargli l’iscrizione al Club accademico che tanto vagheggiò Buzzati cercando invano di conquistarsene i favori.  Nel 1948, quando Franceschini entrò nel novero delle sue guide (le altre “buzzatiane” furono Quinz, Schranzhofer, Apollonio) quest’ultimo aveva appena compiuto la seconda salita solitaria, dopo Comici nel 1937, di una via di sesto grado: la Solleder-Kummer al Sass Maor nelle Pale di San Martino suscitando nel suo nuovo, illustre cliente una fortissima impressione. Erano trascorsi poco più di vent’anni dall’iscrizione quale “socio studente” di Buzzati alla sezione milanese del Club alpino, e quella sua richiesta in carta ingiallita, oggi conservata nel sancta sanctorum della Biblioteca Luigi Gabba, riporta che era iscritto anche al primo anno dell’Università di Milano (facoltà di Giurisprudenza).

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Dino Buzzati soddisfatto con Rolly Marchi durante una scalata.”Ma non è una pazzia?”, si chiese lo scrittore dopo la sciagura del Pilone Centrale, al Monte Bianco.

Che tipo fosse Buzzati non occorre qui ripeterlo: lo si intuisce dalle immagini che circolano di lui, sempre un po’ impettito, il tratto militaresco da circolo ufficiali che metteva in soggezione. E venata di militarismo era la “Famosa invasione degli orsi” che apparve a puntate sul Corriere dei Piccoli e i nostri genitori ci leggevano la sera e poi ci sognavamo puntualmente la notte.

I suoi quadri con quelle montagne esili e inquietanti tappezzano oggi fin sul soffitto la casa in via Vittorio Veneto dove risiedeva fino all’estate del 2015, prima di spegnersi, la dolce Almerina, sua moglie e musa. In quella bella casa con vista sul Monte Merlo dei Giardini pubblici, una delegazione del Cai si recò nel 2013 per ottenere in prestito, per la mostra “La Lombardia e le Alpi” allestita nel vicino Spazio Oberdan, il celebre “Duomo di Milano”, una tempera su olio del 1958, uno dei dipinti buzzatiani più famosi. Il dipinto tradisce sicuramente la nostalgia per le Dolomiti, di cui l’autore sentiva spesso la mancanza. Apparve per la prima volta sulla copertina di “Bàrnabo delle montagne”, il suo primo romanzo scritto nel 1933. “La pittura”, diceva Buzzati, “per me non è un hobby, ma è il mio vero mestiere: anche se nei quadri continuo a narrare delle storie come nei libri”.

Buzzati praticava in quegli anni per lo più la montagna “scritta” o “parlata”, raccontando del K2 o della tragedia del Pilone Centrale. “Ma non è una pazzia?”, si chiese appunto dopo la sciagura del Freney. Ma non andò oltre nella requisitoria e rese giustizia a Walter Bonatti concludendo il suo articolo: “Guai se a questo mondo non ci fossero uomini come i Bonatti e gli Oggioni. E c’è da giurare che quando partirono gli argonauti, quando Ulisse tentò le colonne d’Ercole, quando Icaro fece il famoso volo, i commenti in piazza furono tali e quali oggi per la tragedia del Monte Bianco, con le stesse identiche parole”. Più drastico era stato quattro anni prima il suo giudizio dopo la drammatica scalata invernale sul Monte Bianco di Bonatti e Gheser costata la vita ai giovani Henry e Vincendon. “Basterebbe”,  aveva scritto, “che, nell’evenienza di imprese audacissime, sì ma di discutibile costrutto come le scalate fatte nella stagione avversa, basterebbe che giornali, riviste, radio e televisione mantenessero un ermetico silenzio, senza cronache, né interviste, né fotografie grandezza pagina. Se questo progetto, ahimè troppo utopistico, potesse realizzarsi, siamo convinti che la solitudine dei più audaci picchi non sarebbe turbata da nessuno per tutta la durata dell’inverno”. Una cosa è sicura. Quell’alpinismo che oggi si direbbe estremo sicuramente lo affascinava ma non lo condivideva. (Ser)

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