La strage dei jumper e le colpe dei social

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La rubrica di Michele Serra che denuncia la perdita dell’esperienza individuale.

Da un’inchiesta di Giampaolo Visetti nelle pagine del quotidiano La Republica è emerso per i jumper estremi qualcosa di diverso e nuovo rispetto alle tante tradizionali maniere di rischiare la pelle per provare un’emozione forte. Qualcosa che era emerso anche da un’inchiesta del quotidiano Denverpost (ripresa il 18 ottobre 2016 da mountcity.it) che annunciava la presa di posizione di alcuni istruttori americani sull’influenza dei social media nel comportamento di chi pratica sport estremi. Sull’argomento torna nella sua rubrica L’amaca il 19 ottobre Michele Serra precisando che “questo qualcosa di diverso e nuovo è riassunto alla perfezione nelle parole del jumper Di Palma: ‘Se non ci fossero i social, il 90% di noi farebbe altro”. Ovvero: ci si lancia solo a patto che questa esperienza estrema (e solitaria) possa avere un pubblico. Solo se la webcam è accesa. Qualcuno poi compone le spoglie e recupera la webcam”.

È stata come si sa un’estate tragica per gli sport estremi. Stando alle cronache, 37 appassionati di base jump in tuta alare avrebbero perso la vita sulle Alpi. Il sindaco di Chamonix ha vietato la patica di questo passatempo sul Monte Bianco disponendo che l’avviso del nuovo divieto venga affisso alle partenze degli impianti di risalita dell’Aiguille du Midi e di Planpraz, i più frequentati dai base jumper. Ma non è soltanto colpa dei social media se il base jumping si diffonde e si traduce in una strage inaudita. La colpa è anche del cinismo degli sponsor, dei siti web che incensano questi aspiranti suicidi, delle rassegne cinematografiche adrenaliniche che fanno da grancassa pur di fare cassa. “Ma il cinismo pubblicitario”, osserva ancora Serra nella sua rubrica in Repubblica, “non è certo una novità, mister Barnum lo conosceva già nell’Ottocento…La novità è la perdita dell’esperienza individuale (che fu il vero scopo dell’alpinismo classico) al difuori della sua condivisione pubblica. O tutti vedono quello che sto facendo o è come se non lo facessi…Il supremo lusso futuro in tema di libertà sarà fare qualcosa solo per noi stessi, badando bene che nessuno sappia”. Ma quanti grandi alpinisti sarebbero diventati grandi se non avessero inseguito, ricambiati, i media facendo commercio delle proprie avventure e disavventure? (Ser)

4 pensieri riguardo “La strage dei jumper e le colpe dei social

  • 26/10/2016 in 14:45
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    Difficile giudicare e giusto rispettare il dolore di amici e familiari. Ma ho la sensazione che “l’andare oltre i limiti” ( ormai fenomeno culturale) sia un agito ordalico, di sfida con la morte, di persone che si credono “grandi” pur essendo ancora “piccoli”.

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  • 25/10/2016 in 15:47
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    Leggo di Rozov da 7700 metri sul Cho Oyu.
    Ora sarà molto difficile per i base jumpers mettersi in mostra.
    Però magari la bibita ne sceglierà altri per altre robe.

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  • 19/10/2016 in 16:38
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    Tu dici: “Ma quanti grandi alpinisti sarebbero diventati grandi se non avessero inseguito, ricambiati, i media facendo commercio delle proprie avventure e disavventure?”

    Io darei come risposta: tutti quelli veramente grandi.
    Quelli che dici tu vengono usati per divertire la gente, per farla “divergere”.
    Per la gente ci vuole roba di facile comprensione, altrimenti non si crea interesse.

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    • 19/10/2016 in 23:45
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      Walter Bonatti non diventò un grande facendo commercio! E neppure Preuss né Dülfer né Dibona né Gervasutti né Mummery né Solleder né Buhl né Boccalatte né Diemberger né tantissimi altri protagonisti della storia dell’alpinismo, animati soltanto dalla loro passione.

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