Geo Chavez più in alto delle nuvole

C’erano probabilmente diversi modi di raccontare la tragica e gloriosa traversata delle Alpi del peruviano Geo Chavez nel 1910, in piena Belle Epoque. Fredo Valla nel lungometraggio “Più in alto delle nuvole” ha scelto di farne una ballata per immagini, “dove si uniscono splendidi repertori d’archivio e parti d’animazione in stile papier decoupé, dove la storia nasce dalla continua tensione tra mito, favola e ricostruzione storica”. Forse però era meglio scegliere: o favola o ricostruzione storica. Ma ormai cosa fatta capo ha. La via hollywoodiana del biopic non andava considerata per palesi ragioni di bilancio anche se lo avrebbe meritato un personaggio come Chavez, intrepido erede di un banchiere della Ville Lumière in un mondo che covava i germi della guerra. Un giovane assetato di avventure almeno quanto lo fu il Duca degli Abruzzi che a quei tempi sventolava il tricolore di Casa Savoia su vette remote. C’è invece poco di eroico nel Geo Chavez che viene delineandosi nel film, ragazzo ostinato e un po’ insensato, il cui destino appare fin dall’inizio segnato. Ci vuole poco a capirlo dalla canzone che il vecchio chansonnier Giorgio Conte intona nelle prime sequenze: “Che coraggio il ragazzo seduto lassù/, nell’aria gelata… / mentre il vento sull’ali furioso picchiava” (le parole per quello che valgono sono di Carlo Grande). Sarebbe stato interessante se la ballata di Chavez fosse proseguita in una dimensione onirica, ma si capisce subito che Conte (fratello e pallida fotocopia del più illustre Paolo) si limita a strimpellare con la sigaretta tra le labbra mentre la storia imbocca provvisoriamente la strada dell’edutainement televisivo alla Alberto Angela, dando fondo al ricco materiale di repertorio con inevitabili verbose consulenze di un paio di sapienti.

Come molti sanno, l’apparecchio di Chavez si schiantò a Domodossola in fase di atterraggio e il giovane morì dopo quattro giorni di ospedale. Sull’argomento è uscito un documentatissimo libro (“Il volo di Chavez” di Edgardo Ferrari, Grossi, Domodossola, 2009), in occasione del centenario dell’impresa che si è celebrato un po’in sordina. Fu il grande giornalista Luigi Barzini, che sul Corriere della Sera offrì ampia mediatizzazione all’impresa, a raccogliere le ultime testimonianze degli amici annichiliti. “L’apparecchio era stanco, aveva lottato troppo col vento”, dissero. Geo se ne andò con i suoi sogni senza sapere probabilmente che di lì a poco il cielo si sarebbe riempito di macchine da guerra, altro che i fragili e innocenti Blériot che riusciva a domare quando saliva più in alto delle nuvole. Inadeguati appaiono in un simile contesto nel film di Valla i pupazzetti “découpé” a cui è affidata la cronaca della trasvolata, così come ingenue e scontate sono le strofe in stile Corriere dei Piccoli in cui si condensa l’avventura: “Vieni Geo, scendi dal cielo./ Adesso il tuo volo comincia davvero!”. Più o meno il concetto espresso da Giovanni Pascoli in “Odi e inni”(1910): “Cade, con la sua grande anima sola sempre salendo. E ora sì, che vola!”. Ma c’è differenza tra poesia e poeticheria e Valla, che si è distinto nella sceneggiatura del bellissimo “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti, dovrebbe saperlo. Con il risultato che il babelico rincorrersi di valli e cime e i gironi danteschi delle gole di Gondo attraverso cui è passato il fragile Blériot restano purtroppo sullo sfondo di un film più velleitario che visionario, di un’opera in apparenza ambiziosa che solo a sprazzi riesce a decollare. (Ser)