Misteri della Valgrande. L’eremita scalzo e lo studente sparito

Gianfry montuzzo
Gianfry, l’eremita scalzo morto nell’estate del 2015, incontra due escursionisti nella sua baita (ph. Montuzzo, per gentile concessione). Nella foto sopra il titolo un aspetto della Valgrande.

Era da tutti conosciuto come il Gianfry, l’eremita scalzo della Valgrande. Più di dieci anni fa Gianfranco Bonaldo morto l’estate scorsa a 59 anni, aveva deciso di lasciare la precedente vita – faceva l’autista di scuolabus in Lombardia – e ritirarsi nella zona selvaggia tra l’Ossola e il Verbano. Solo per brevi momenti interrompeva questo suo isolamento dal mondo. Per chi si trovava a camminare tra i sentieri sopra la valle Vigezzo era una figura di riferimento, nonostante questo suo stile particolare che lo portava a girare senza scarpe. Le aveva lasciate alla “precedente vita” raccontava lui.  Di Bonaldo si è riparlato i primi di febbraio perché la sua figura è stata associata a quella dello studente di filosofia varesino Paolo Rindi sparito all’inizio del mese in Valgrande. Nella testa di qualcuno, a quanto si legge nelle pagine del Corriere della Sera del 12 febbraio, è frullata l’idea che Rindi avesse avuto una crisi come quella di Gianfry. Che avesse deciso di mollare tutto, andarsene via per riapparire sui monti…

Questa triste vicenda induce a rileggere il bellissimo racconto che Simonetta Radice ha dedicato a Gianfry nel sito “Altitudini” e che ha vinto il “Blogger contest” del 2015. Il brano si intitola “Le avventure degli altri (ciao Gianfry)”.  “Accantonasti il tuo lavoro e il tuo cognome – lassù non serve, dicevi. Per tutti diventasti Gianfry e basta”, scrive Simonetta. “Sulle montagne ci andasti scalzo. I tuoi piedi si fecero erba, neve, roccia. Il tuo incedere agile di balzi. Per sedici anni casa tua fu il bivacco di Vald, in Val Grande. Estate: le notti dolci e silenti d’abbandono risuonavano delle note soffiate nel tuo corno. Autunno: scrocchiare di foglie, spezzare di legna, profumo di resina. Più rado il passaggio degli escursionisti a portarti saluti, libri e magari un pacco di pasta…Se ti avessi qui davanti, non ti chiederei il perché, ma il cosa e il come. Come hai passato quel tempo ovattato, quei silenzi tinti di bianco? Com’è obbedire al solo ritmo che il corpo dice, senza obblighi, senza lancette, senza le infinite distrazioni del quotidiano commercio con il mondo? Com’è l’avventura nuda di vivere?”.

Simonetta Radice conclude il suo post con una citazione del filosofo americano Henry David Thoreau: “Se un uomo non tiene il passo con i compagni, forse questo accade perché ode un diverso tamburo. Lasciatelo camminare secondo la musica che sente, quale che sia il suo ritmo o per quanto sia lontana”. E affida a queste parole “e al vento che accarezza i faggi della val Grande”, il compito di dire a Gianfry il suo saluto.

3 pensieri riguardo “Misteri della Valgrande. L’eremita scalzo e lo studente sparito

  • 11/12/2022 in 23:05
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    La foto con Gianfry ed i 2 escursionisti è mia, presa da gulliver, utente giuliof, gita del 14 gennaio 2007.

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  • 04/03/2016 in 09:35
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    Purtroppo il corpo dello studente è stato trovato dal soccorso alpino in fondo a un canalone. Un epilogo straziante, ma fortemente temuto.

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  • 14/02/2016 in 16:52
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    Un giorno mi sono tolto le scarpe anch’io, ed ho scoperto un mondo nuovo. Sembra esagerato, ma è proprio così. Era successo che, dopo dodici anni passati alla scrivania dodici ore al giorno, e rari momenti per fare sport, i miei piedi stressati da rare e forsennate corse di sfogo in villa avevano perso l’assetto fisiologico necessario per correre. Erano diventati talmente deboli che dovevo sempre portare dei plantari, e tenevo le scarpe, con i plantari dentro, persino in spiaggia.
    Ma io volevo tornare a correre. Così mi operai: progettino operatorio col luminare di turno, poi discussioni e confronti in sala operatoria, senza anestesia totale, qui una sezione, lì una vite…: fu come operarmi con le mie mani. Ma dopo l’intervento, la necessaria terapia di riabilitazione, quella in ambulatorio per capirci, non funzionò. Camminavo, certo, ma non avevo abbastanza forza nei piedi per correre.
    Erano passati mesi. Ero andato in montagna, dalle parti di Brunico. Un giorno, un amico del posto mi invitò a percorrere un ‘sentiero Kneipp’: la risalita di un ruscello lungo una stretta valletta nel bosco. A piedi nudi.
    Dopo anni di protezione ossessiva dei piedi, mi sembrò folle: ma accettai.
    Mi tolsi le scarpe.
    Posai i piedi nudi sull’erba. E…
    Non so come descriverlo altrimenti: fu come togliere una benda dagli occhi.
    Letteralmente.
    I miei piedi… vedevano, sentivano tutto ciò su cui si posavano.
    E siccome eravamo in un bosco, sulla riva di un ruscello, fu come percepire qualcosa di più oltre al suono dell’acqua, al profumo del bosco, alla bellezza della luce fra gli alberi e ai suoi riflessi sulle piccole onde della cascatella.
    Fu come acquistare, da un momento all’altro, un sesto senso.
    E tutto ciò avvenne in un bosco, lontano dalla civiltà, che uscire dalle scarpe, anche mentali, fu come abbandonare.
    Da allora uso le scarpe solo per il mio lavoro in città e fra la gente. Ma mi alleno a piedi nudi, come prescrivono gli allenatori di atletica leggera sui campi d’erba dei college americani, o con sandali speciali molto usati degli Usa. All’idea, un po’ strana per la mentalità della mia città, ero abituato da quando, negli anni Ottanta, arrampicavo nelle palestre di roccia a piedi nudi. E sono tornato a correre. Ma senza barare, senza scarpe. Senza fretta. Non mi importa fare i tempi: mi importa relazionarmi col posto dove corro, che non è mai l’asfalto, mai la pista, ma sempre il parco, il sentiero, la spiaggia, sempre la natura. E per relazionarmi con la natura correndo, non voglio barare: niente scarpe, roba ammortizzata e ‘isolante’ dalla natura insomma, ma piedi nudi, o sandali o fivefingers.
    Perciò… Gianfry lo capisco perfettamente. E anche Paolo: com’era bello per me preparare gli esami di Filosofia in riva al mare. Non c’è nulla come tornare alla Natura. In fondo non desideriamo altro. Ma qualcuno lo fa davvero.

    Francesco Paolo Mancini

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