Società

Strigliate ai giornalisti “dal cervello di gallina”

CAIfascio

Si stava peggio quando si stava peggio. Le odierne strigliate dell’associazione fondata da Quintino Sella rivolte agli iscritti che bazzicano sul web i siti miscredenti gestiti da privati cittadini anziché esprimersi nei siti ufficiali sono bazzecole in confronto a quanto avveniva “quando c’era lui” e ogni volta che per colpa dei giornalisti definiti autorevolmente “dal cervello di gallina” comparivano cronache non in sintonia con i “fogli disposizioni” del Centro Alpinistico Italiano. “Vieni avanti giornalista”, avrebbero detto all’epoca con maggiore classe i fratelli De Rege. Ma il linguaggio del Centro era quello che era. Beghe che appartengono al passato, ci mancherebbe. Ma la sensazione è che i media, generalisti o no, continuino a essere considerati dei terzi incomodi, dei tartari che attentano all’integrità di questa fortezza Bastiani. O è solo un’impressione? Forse per chiarire meglio quello che stiamo bonariamente dicendo, vale la pena di rileggere questo brano su “quel” Cai ripreso da “Scarpone e moschetto” di Roberto e Matteo Serafin (Centro Documentazione Alpina, 2002) (R.S.)

Scarpone e moschetto copia“Non seminate il veleno della discordia e del pettegolezzo”

Di “giornali male informati” si occupò nel 1885 la Rivista del Club alpino. Ed è noto che nel 1863 l’illustre statista Quintino Sella fondò il CAI anche nella prospettiva di scendere in campo nel settore delle pubblicazioni “alpine”. Memore di questi precedenti, il presidente generale Angelo Manaresi invita negli anni Trenta senza mezzi termini a un’analisi di coscienza gli operatori dell’informazione. Perché non infanghino, spiega, “il campo alpinistico che si va ridestando da lungo, nirvanico sonno”. Perché non seminino “il veleno della discordia, del pettegolezzo, delle parole cattive; il padreternismo di attori o di esaltatori; il beghismo regionalistico e di categoria: tutto il male che talora affiora in basso, nebbia che stagna: può nascondere la valle ma non attinge le alte cime”.

Il significato della strigliata è chiaro: l’agonismo, la voglia di esprimere la propria forza e il proprio ardimento, il gusto sportivo del primato sono valori preziosi che vanno salvaguardati anche in termini di linguaggio. Qualunque ombra possa allungarsi su questi valori non può che riverberarsi sulla visione totalitaria del fascismo che si vuole fare corrispondere con “un nuovo strumento linguistico, una lingua se non rivoluzionata almeno fortemente caratterizzata e riconoscibile come fascista”. Sua eccellenza ce l’ha particolarmente a morte con i giornali che si concentrano sul piagnisteo della “montagna assassina”, producendosi in sgradevoli “piati e lai ad ogni sciagura alpinistica”. Certi giornalisti sono a suo avviso disfattisti e gente “dal cervello di gallina”. Quella stessa gente che “quando noi eravamo nelle trincee di gelo e ci morivano accanto ogni giorno i camerati più cari, imprecava, standosene a casa davanti a un bel fuoco, contro quello scempio che lasciava, invece, sereni e tranquilli, al nostro posto di dovere, noi che pure avevamo della guerra, nel cuore e nelle carni, tormento e segno.”

Mussolini, Manaresi, Boccalatte copia
Il presidente del Cai Angelo Manaresi in camicia nera, al centro, con Benito Mussolini e Gabriele Boccalatte.

Al bando i piati e i lamenti, allora. “Non vi è conquista senza lotta, e non vi è lotta senza caduti: sulla scia del sacrificio marcia l’avvenire”. L’esaltazione che permea le parole degli editoriali di Manaresi trova riscontro in una situazione di fatto che turba le coscienze. Nel suo inesorabile fare proseliti e progredire verso la massa, l’alpinismo richiede infatti tributi di vite umane che negli anni Trenta si rinnovano con inusitata frequenza. Mentre i feretri dei caduti al Corvatsch e sulla Rasica percorrono in silenzio le vie di Milano, molti soci camerati del Cai scuotono costernati la testa. S’insinua il dubbio che qualcosa non vada nell’ideologia di questi “conquistatori dell’inutile”, che a troppa esaltazione non faccia sempre riscontro un’adeguata preparazione.

Ma Manaresi non demorde e rincara la dose. Ce l’ha con “i soliti queruli piagnoni che ne hanno profittato per imprecare contro quella che essi si ostinano a chiamare inguaribile follia: ma non è tempo, questo, per seminatori di sventura, per podagrosi della vita: non vi è combattimento senza rischio, non vi è vittoria senza luce di sacrificio: la vita è battaglia, sulle Alpi come sul mare, nel cielo, come nelle grandi città di pietra e di tormento: il domani è dei popoli che sapranno osare”.

(da “Scarpone e moschetto” di Roberto e Matteo Serafin, Centro Documentazione Alpina, 2002)

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