Quando a Mattmark (CH) i clandestini eravamo noi

Annuario ossolano 2016
In copertina la piazza Mercato in un disegno di Ioshua Edward Adolphus Dolby. L’Almanacco è pubblicato dalle Edizioni Grossi, www.grossiedizioni.it Nella foto sopra il titolo il lago di Mattmark.

Mezzo secolo fa esatto una valanga travolse una diga in costruzione in Svizzera. Morirono 88 lavoratori, di cui 56 italiani. Le vittime non hanno mai avuto giustizia e la ricorrenza è stata commemorata da autorevoli testate come “L’Espresso” e “Famiglia Cristiana”, che hanno dato prova di sensibilità ricordando con ampi servizi quel 30 agosto del 1965. Ora a occuparsene è l’”Almanacco Storico Ossolano 2016” (240 pagine 22 euro) fresco di stampa, una bellissima pubblicazione tenuta coraggiosamente in vita dall’editore e libraio Alessandro Grossi di Domodossola le cui vetrine si aprono nella bomboniera di piazza Mercato.

Ricostruisce l’evento in una decina di pagine dense d’informazioni e ricerche, con un’accurata bibliografia, Giulio Frangioni, illustre firma dell’universo editoriale ossolano. Il suo saggio si apre con un’accurata descrizione del piccolo lago di Mattmark nel Vallese dove avvenne la sciagura, sovrastato dal ghiacciaio dell’Allalin che si estende su una superficie di circa dieci chilometri quadrarti.

“Ghiaccio, acqua e verticalità: una miscela esplosiva che può provocare enormi danni”, annota Frangioni che di queste terre alte conosce ogni segreto anche come tecnico del Soccorso alpino, “ma che ben dosata può dare energia a un paese come la Svizzera. Nel 1954 sono presentati i primi progetti per lo sfruttamento del lago di Mattmark ma sarà solo nel 1960 che la zurighese ElektroWatt inizierà i lavori veri e propri. Dal preventivo iniziale i costi lungo gli anni iniziarono a lievitare e una voce importante era rappresentata dal costo della manodopera e dalla difficoltà di reperire operai, per cui si impiegarono sempre più operai stranieri”.

“Il ricorso a emigranti, in particolare emigranti italiani”, spiega ancora Frangioni nell’Almanacco Storico Ossolano, “era molto vantaggioso: lavoravano anche 15-16 ore al giorno festivi compresi con temperature che scendevano anche a 30 gradi sotto zero; vivevano in pessime baracche sovraffollate, a volte senza bagni o riscaldamento, con tetti che il vento spazzava via; era un ambiente di lavoro duro e difficile e con un potere contrattuale pressoché nullo. Gli emigranti non erano ben visti nella Svizzera di quegli anni, dove aleggiava un forte clima xenofobo e vigevano leggi assurde come quella per cui i lavoratori stranieri non potevano congiungersi con i familiari. Ci furono anche tristi storie di bambini nascosti e costretti a vivere come invisibili, senza alcun diritto, come quello di frequentare la scuola”.

Mattmark dopo valanga
Ciò che rimase delle baracche.

Non ci fu scampo quando la valanga di oltre due milioni di metri cubi di ghiaccio travolse e seppellì nel 1965 le baracche, la mensa e le officine sottostanti. Trascorsero più di sei mesi per recuperare l’ultima salma. Fu la provincia di Belluno, reduce dall’apocalisse del Vajont, con 17 vittime, la più colpita, insieme con San Giovanni in Fiore (Cosenza) che perse 7 uomini. Il saggio “Morire a Mattmark” scritto da Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra (Donzelli), ha riacceso recentemente le luci su questa “Marcinelle dimenticata”, dal finale giudiziario triste e grottesco.

“Da cinque anni”, hanno raccontato alcuni superstiti, “vedevamo cadere pezzi di ghiaccio da lassù e ci avevamo fatto l’abitudine. Gli ingegneri svizzeri ci avevano rassicurato che nella Confederazione elvetica tragedie come quella del Vajont non potevano avvenire. Qualcuno aveva addirittura risposto malamente: noi non siamo italiani”.

Giuseppe Cleber, detto Bepi, friulano figlio di una guida alpina, lo andava dicendo a tutti: “Ragazzi, se quel crostone di ghiaccio si stacca noi qui facciamo la morte del topo. Io di montagne me ne intendo. Io so che quando un ghiacciaio fa il vuoto sotto, non c’è da fidarsi. E quel ghiacciaio lì, sulle nostre teste, aveva un vuoto sotto che faceva spavento”.

E siamo al 30 agosto 1965, alle 17.15. Niente rumore. Solo un vento terribile, e quei poveri lavoratori volavano come farfalle. Poi ci fu un gran boato, e la fine. Autocarri e bulldozer vennero scaraventati lontano.

La tragedia della diga svizzera si concluse nel peggiore dei modi, annota Toni Ricciardi nel suo “Morire a Mattmark”. L’iter dell’inchiesta fu oltremodo lungo e macchinoso, oltre sei anni, e i diciassette imputati chiamati a rispondere dell’accusa di omicidio colposo furono tutti assolti, nonostante tutti sapessero del ballo cronico del ghiacciaio. I giudici stabilirono che si trattò di una catastrofe naturale; e benché la commissione d’inchiesta avesse sottolineato le inadempienze e, soprattutto, la negligenza e la superficialità che indussero a tirar su le baracche in linea diretta alle pendici del ghiacciaio in agguato, la pena inflitta fu il pagamento di multe dai 1000 ai 2000 franchi.

La Stampa su Mattmark
Così La Stampa diede l’annuncio il 31 agosto 1965.

“Al cospetto della montagna finalmente immobile, i corpi vengono estratti ad uno ad uno”, scrisse Dino Buzzati mandato sul posto dal Corriere della Sera come inviato speciale. “Le vostre famiglie ricevevano da voi delle bellissime cartoline plasticate a colori, come si usa stampare in Svizzera, con i prati fioriti in primo piano e sullo sfondo le meravigliose montagne scintillanti appunto di ghiacciai, che sembrano promettere la felicità. Il paradiso plasticato significava per voi dieci undici ore di lavoro al giorno, bel tempo o tempesta che fosse, fatica, sudore, e polvere, sporco, sassi, freddo e il continuo pensiero, così tormentoso, della casa lontana”.

“In poche parole: oltre al danno le beffe”, è la conclusione di Frangioni nell’Almanacco Storico Ossolano. “Come sempre accade in queste situazioni, sono sempre gli umili e i deboli e pagare il prezzo più alto, quando in gioco ci sono interessi economici enormi, mascherati dal mito del progresso”.

Ma non è solo per questo saggio esemplare che l’”Almanacco Storico Ossolano” merita un posto di riguardo negli scaffali degli amici della montagna e dei fedelissimi frequentatori di quest’area dello storico Ducato di Milano. Lo merita anche per i saggi di Silvia Ceccomori, Fabio Copiatti, Paolo Crosa Lenz, Pierluigi Degiovanni, Luciani Falcini, Edgardo Ferrari, Giulio Frangioni, Massimo Gianoglio, Giovanni Grossi, Gian Vittorio Moro, Benito Mazzi, Gian Vittorio Moro, Elena Poletti Ecclesia, Enrico Rizzi, Anna Simoni e Giulio Tonelli: tante penne impegnate a raccontare questa loro terra incantevole e talvolta dimenticata.

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