Il popolo Hunza e l’elisir di lunga vita tra mito e realtà
In concomitanza con la rassegna Bergamo scienza il Palamonti, sede del Cai Bergamo, ha ospitato venerdì 9 ottobre 2015 una tavola rotonda sul tema “Alimentazione e montagna”. Relatori sono stati Giorgia Carabelli, Danilo Gasparini, Giorgio Martini e Oriana Pecchio che hanno trattato l’alimentazione dell’alpinista, del trekker e degli atleti che partecipano a competizioni in ambiente alpino. Per gentile concessione, pubblichiamo la relazione della dottoressa Oriana Pecchio, medico di montagna, giornalista e alpinista, membro della Società Italiana di Medicina di Montagna di cui è vice presidente, sul tema “Gli Hunza e l’elisir di lunga vita tra mito e realtà”.
Alti, belli e di carnagione chiara
L’interesse per il popolo Hunza nacque tra la fine Ottocento e i primi anni del Novecento. Tra i primi europei a visitarli, fu nel 1878 John Biddulph (1840 – 1921) colonnello dell’esercito britannico e naturalista, primo agente politico di Gilgit, che nel 1880 pubblicò “Tribes of the Hindoo Kush”. Il libro nel capitolo II menziona gli Hunza, popolazione di pastori e agricoltori che occupano la riva destra orografica del fiume Hunza tributario del Gilgit, a sua volta affluente dell’Indo. Al tempo gli Hunza, come i vicini Nagar, avevano fama di briganti: i loro villaggi sorgevano lungo una delle vie carovaniere che collegavano Gilgit a Kashgar attraverso il Mintaka pass, a circa 4.800 metri. Ma lo stesso Biddulph ammette che la definizione non è consona e che si tratta di comunità agropastorali. Già il colonnello Biddulph li descrive di fisionomia ariana, alti e belli e di carnagione chiara. I coltivi della regione si estendevano al tempo di Biddulph per sette miglia in lunghezza e circa uno e mezzo in larghezza e davano nutrimento a circa seimila persone. Nel 1903 Sir Aurel Stein, archeologo autore di “Sand buries ruins of Khotan” soggiorna a Baltit, capitale del regno Hunza, e rimane impressionato dal fatto che un messaggero inviato a preparargli l’accoglienza a Tashkurgen, abbia percorso 280 miglia in sette giorni, passando due volte il Mintaka Pass.

Tra il 1904 e il 1914 sir Robert McCarrison, medico militare britannico, soggiorna nella zona e rimane colpito dalla prestanza fisica e dalla dieta consumata dagli Hunza. Nel 1925 in un articolo apparso su “The practitioner” dal titolo “The relationship of diet to the physical efficiency of Indian races”, scrive «Gli Hunza non hanno paragoni con nessun’altra razza dell’India quanto a perfezione fisica; sono ultracentenari, vigorosi in giovinezza e avanti con gli anni, resistenti alla fatica e in generale godono di “assenza di malattie”».
Anni dopo sperimenta in laboratorio su centinaia di ratti gli effetti della dieta sul fisico: crescita, sviluppo e riproduzione, e sull’insorgenza di malattie. Dagli esperimenti sui ratti Mc Carrison deduce che con una dieta povera asiatica o una dieta tipica di un quartiere di Londra (White Chapel) i ratti si ammalano e tutti gli organi sono colpiti, mentre con la dieta Hunza, seppure senza frutta, i ratti crescono meglio, più forti e grandi, si riproducono meglio e agli esami autoptici non presentano segni di malattie degenerative. Inoltre i ratti, nutriti con la dieta White Chapel sono più litigiosi e aggressivi giungendo a episodi di cannibalismo (Studies in deficiency diseases – 1921).
Charles Bruce, capo delle spedizioni all’Everest nel 1922 e nel 1924, in una comunicazione sul Journal of the Royal Geographical Society del 1928, asserisce che gli Hunza sono superiori addirittura agli Sherpa come portatori in alta quota.
Altre relazioni seguono negli anni Trenta, tra di esse quella contenuta nel libro del colonnello Reginald Shomberg “between the Oxus and the Hindus” (1935) che descrive dettagliatamente i tre pasti della dieta Hunza: pane integrale, legumi, verdura e latte dopo alcune ore di lavoro al mattino, frutta fresca o essiccata a pranzo e lo stesso cibo alla sera, raramente carne, una volta al mese in estate e un po’ più spesso in inverno, vino d’uva e di more.
I primi visitatori, forti della somiglianza con statue di guerrieri Greci, in specifico i guerrieri del tempio di Egina conservati nel museo di Monaco di Baviera, danno credito alla leggenda che gli Hunza siano discendenti di soldati macedoni arrivati nell’Hindu-Kush al seguito di Alessandro Magno.
Recenti studi genetici in realtà accumunano i progenitori maschi degli Hunza con popolazioni di lingua Bartangi (dal Pamir) e Sinti – Romani, indo – ariani – con un contributo dall’Asia, probabilmente dal Nord dell’Himalaya. (R. Spencer Wells et al., “The Eurasian Heartland: A continental perspective on Y-chromosome diversity,” Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (28 August 2001).
La lingua parlata dagli Hunza è il Burushaski, che non ha forma scritta ed è stata studiata approfonditamente dal linguista David Lorimer e dalla moglie che nel 1935 soggiornarono a Baltit per circa un anno. Lingua difficile con almeno ventotto forme di plurale, non ha legami con il russo, le lingue indo europee o il turco.

QUALCHE CATTIVA ABITUDINE. John Clark, geologo statunitense vive tra gli Hunza per quasi due anni tra il 1950 e il 1951 e nel 1956 pubblica negli Stati Uniti (New York) il libro “Hunza, lost Kingdom of the Himalayas” con una visione un po’ più realistica della popolazione. Durante il suo soggiorno, forte di una preparazione medica di base, cura circa seimila Hunza per varie malattie, dall’impetigine alla malaria alla tubercolosi e avanza dubbi sulla loro longevità: in effetti non esisteva un’anagrafe e gli Hunza contavano gli anni in base alla loro saggezza. Nonostante tutto riferisce ancora di una popolazione forte, intelligente, pulita e gioviale. In quegli anni aumentano i visitatori stranieri, dopo il 1947 il territorio finisce sotto il governo del Pakistan e i giovani prestano servizio nell’esercito portando a casa anche cattive abitudini come il fumo di sigaretta e arrivano farina raffinata e zucchero, tè e caffè, tutti cibi fino ad allora praticamente sconosciuti.
MALATTIE CORONARICHE SCONOSCIUTE. Uno studio di Edward G Toomey e Paul D White, pubblicato sull’ American Heart Journal del 1964 riporta alcuni dati sulla salute di Hunza anziani, sono solo venticinque, di età riferita avanzata (90 – 110 anni): nessun segno di malattia coronarica all’ECG, ipertensione o ipercolesterolemia.
RARE LE INFEZIONI. Nel 1960 in Canada viene pubblicato un libro di John Tobe “Adventures in a land of paradise” che, come recita il titolo, descrive il popolo in salute seppure il medico locale gli avesse dato informazioni su alcuni casi di carie dentarie, gozzo, infezioni come il tracoma. Contemporaneamente o quasi il dr. Allen E. Banik e Renée Taylor pubblicano “Hunza Land – secret of the Fountain of Youth Kingdom in the Himalayas” in cui si analizza la dieta.
UN LIBRO DIFFUSO. In Europa è il dottore in scienze economiche Ralph Bircher, figlio del Max Bircher medico fautore del crudismo e inventore del musli, a scrivere un libricino, “Gli Hunza, un popolo che ignora la malattia”, tradotto e ripubblicato più volte anche in italiano, che diffonde il verbo dell’alimentazione crudista, vegetariana, senza concimi di sintesi e pesticidi.
LA LORO STORIA. In Pakistan nel 1980 Shahid Hamid, al tempo Ministro dell’Informazione e telecomunicazione, pubblica un’opera completa sulla storia degli Hunza, con precisi riferimenti bibliografici e un’appendice sull’alimentazione. Nel 1982 è stata aperta la Karakorum Highway.
LA DIETA HUNZA. Data la conformazione del territorio è possibile l’agricoltura su terrazzamenti e poca pastorizia, soprattutto di capre, ma anche di piccoli yak/vacche, che nella stagione calda vengono portati sui pascoli alti che emergono sui versanti esposti a sud delle valli glaciali. In autunno e primavera alle bestie si danno le foglie basse dei pioppi.
Il latte viene in parte consumato fresco, in parte trasformato in burro (ghee) dal sapore forte, conservato per l’inverno.
Altra fonte di grassi, questa volta vegetali, sono i semi della frutta soprattutto albicocche. I noccioli sono aperti e poi usati come combustibile, mentre i semi sono schiacciati per estrarne un po’ di olio da aggiungere agli alimenti.
Base dell’alimentazione sono i cereali che come riferito nei testi citati danno oppio raccolto: orzo estivo seguito da miglio, frumento seguito da grano saraceno. Parte dei semi di cereali vengono fatti germogliare e le piantine vengono consumate come teneri germogli in primavera.
Le verdure e i legumi sono consumati cotti in poca acqua che non viene buttata per non perdere sali minerali: verdure a foglie verdi, piselli, fagioli, patate, altre radici commestibili.
La frutta varia a seconda della stagione: albicocche, fresche e essiccate, mele, pesche, ciliegie, prugne, pere, more. Le albicocche sono quelle coltivate di più e ne esistono una ventina di specie diverse. Si coltiva l’uva con la quale si fa del vino che viene bevuto nonostante gli Hunza siano musulmani, ma ismaeliti. L’Aga Khan ha dato vita a numerosi progetti di agricoltura e sostiene scuole e centri di educazione nella regione.
Come riportato da Alexander Leaf, medico statunitense, nell’articolo “Ogni giorno è un regalo quando si è ultracentenari” comparso sul National Geographic nel 1973, probabilmente gli Hunza devono la loro buona salute soprattutto a quello che non mangiano. Secondo i dati raccolti dal nutrizionista Dr. S. Maqsood Ali e riportati da Leaf i maschi adulti consumavano in media 1923 kcal al giorno con circa 50 g di proteine, 36 g di grassi e 354 g di carboidrati. Proteine e grassi erano trent’anni fa soprattutto di origine vegetale. I grassi erano all’incirca la metà della nostra dieta abituale raccomandata e anche le proteine erano al minimo del fabbisogno. Non c’erano soggetti sovrappeso né sottonutriti, notava Alexander Leaf.
LE ALBICOCCHE E IL GLACIAL MILK. Il largo consumo di frutta e soprattutto le albicocche sono un tratto distintivo dell’alimentazione Hunza. Il contenuto nutritivo delle albicocche fu studiato già da Whipple che nella sua lecture per il premio Nobel nel 1936 (“Haemoglobin regeneration as influenced by diet”) riferiva che 100 g di frutto secco equivalgono a 40 mg di ferro e a più di 300 g di fegato fresco nella capacità di produrre emoglobina. Oltre a Ca, Mg, Na e K le albicocche secche contengono un po’ di Fe, ma non vit B12 né cobalto.
Oggi si sa che le albicocche e la frutta fresca in genere, contengono acqua, fruttosio, sali minerali e fibre, vitamine e provitamine: beta carotene, E e K e diversi tipi di antiossidanti come licopene e polifenoli: acido clorogenico, caffeico, vanillina, coumarina, rutina, acido ferulico, quercetina e quercitrina, resveratrolo. (Kan T. et al. “Phenolic compounds and vitamins in wild and cultivated apricot (Prunus armeniaca L.) fruits grown in irrigated and dry farming conditions”. Biol Res 2014 Sep 23;47:46). Il contenuto in polifenoli cambia a seconda del tipo di frutta, ma gli Hunza avevano una grande varietà di frutti, comprese le more selvatiche, da mangiare durante l’anno.

Ultimamente sono state studiate estensivamente le prugne, stessa famiglia delle albicocche, per il loro benefico effetto sull’osteoporosi determinato pare dal contenuto in Boro.
La frutta essiccata ha maggiori quantità di zuccheri e minor contenuto di sostanze antiossidanti e nella dieta Hunza rappresentava l’unica fonte di carboidrati semplici.
Un’altra ipotesi sullo stato di salute degli Hunza sarebbe la ricchezza in sali minerali dell’acqua che consumano, un’acqua alacalina, il cosiddetto “glacial milk” che non mi risulta sia stato estensivamente studiato.
ALLA PORTATA DI TUTTI. Riguardo invece alle proprietà anticancro dei semi delle albicocche, ricchi di amigdalina, anche un recente Cochrane database sistemic review, nega l’utilità del laetrile, un derivato dell’amigdalina, nella terapia del cancro, mentre sottolinea i potenziali affetti tossici. In letteratura è già stata segnalata un’intossicazione cronica da cianuro in un soggetto che per un mese aveva consumato settanta semi di albicocca al giorno! In conclusione una dieta ricca in fibre, povera di grassi, ricca di vitamine e sostanze antiossidanti naturali, attività fisica e stress limitato potrebbero essere i segreti dell’elisir di lunga vita alla portata di tutti.
Oriana Pecchio
Società di Medicina di Montagna
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Articolo molto interessante, esiste anche chi sostiene che la longevità degli Hunza sia una bufala, ma la notizia della bufala é essa stessa una bufala, in quanto non é suffragata da dati, é invece risaputo che mangiare vegetali, frutta fresca e secca rinforzi la salute ed il sistema immunitario.
Sono d’accordo sul fatto che non ci sono dati né in un senso né nell’altro e quindi che la longevità degli Hunza potrebbe non essere vera. Credo che sarebbe interessante raccogliere dati su di loro e che sarebbe molto interessante fare studi di genetica e abitudini alimentari e stili di vita, come si sta facendo in comunità della Sardegna, Okinawa e dove ci sono molti ultracentenari. Genetics, proteomics, metabolomics…per capire sempre di più come siamo fatti e come reagiamo all’ambiente e ai suoi stimoli in genere; sostanzialmente abbiamo ancora tanto da imparare. Non a caso ho spesso usato il condizionale nel mio articolo.
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