L’arpione da ghiaccio, geniale ma incompreso

Arpione Roseg copia
L’arpione Roseg formato da chiodi tubolari leggerissimi.

Come “arpionare” meglio la montagna durante un’arrampicata su ghiaccio o misto? Se lo è chiesto un banchiere milanese che in Valtellina ha fatto carriera anche come alpinista, Luigi Bombardieri (1900-1957). E non ha tardato a trovare, nel 1935, la soluzione. Si tratta di un chiodo semi tubolare con feritoie, leggerissimo. Lo ha battezzato arpione Roseg in omaggio all’elegante picco glaciale che si eleva in territorio svizzero accanto al Bernina. Sono passati ottant’anni: un’occasione per celebrare questa tappa importante dell’alpinismo su ghiaccio. L’attrezzo trovò un’applicazione nel doppio arpione Roseg, adatto per la sua affidabilità e sicurezza soprattutto nelle soste. Venne commercializzato dalla Sezione Valtellinese del CAI e promosso con una campagna che aveva come testimonial il famoso ghiacciatore Giuseppe Pirovano, il cui nome è associato a quello di una famosa scuola estiva di sci allo Stelvio. Quanto all’inventore, si sa che fu consigliere della Sezione Valtellinese dal 1924, vice presidente dal 1933 e presidente al 1937 al 1946. Rimase poi nel consiglio e si prese a cuore l’ampliamento della Capanna Marinelli che, dopo la sua morte il 28 aprile 1957 per un incidente in elicottero, venne intestata anche a suo nome.

Bombardieri svolse la sua attività alpinistica più impegnativa tra il 1923 e il 1938. Fu uno degli alpinisti valtellinesi più rappresentativi della sua epoca, antesignano dell’attuale scuola di alpinismo e sci-alpinismo, e venne ammesso tra gli accademici del CAI assieme ad Alfredo Corti. Alla sua morte venne istituita per sua volontà testamentaria la Fondazione Luigi Bombardieri, con una sezione educativa per la conoscenza delle nostre montagne. Dell’arpione e di Bombardieri racconta qui Giuseppe Popi Miotti, uno dei più autorevoli alpinisti e storici dell’alpinismo nelle Alpi Retiche.

Una campagna pubblicitaria senza precedenti. Nel decennio del 1930, Luigi Bombardieri, giunto alla sua maturazione alpinistica, trovò nelle grandi altezze e negli ambienti glaciali delle cime valtellinesi il suo terreno d’azione privilegiato: le imprese che compì con le guide malenche Cesare Folatti e Peppino Mitta, sono da considerarsi, per l’epoca, di primo piano. Fu probabilmente durante la loro realizzazione che pian piano maturò in Bombardieri una delle più innovative idee in fatto di attrezzatura tecnica per salite su ghiaccio. La tecnica di allora era molto semplice ma, spesso, laboriosa e fisicamente durissima: quando non si trovava neve e il pendio era una lastra di ghiaccio non restava che intagliarsi pazientemente una scala verso la vetta. Per salire una via su neve e ghiaccio, occorrevano pazienza e colpo d’occhio nella scelta del momento giusto: neve ben assestata, né tanta né poca, ma sufficiente per conficcare la punta dello scarpone con un leggero calcio in avanti. In questi casi l’ascensione anche della più temuta parete poteva rivelarsi quasi una passeggiata. Tuttavia i sistemi di assicurazione e protezione erano quanto di più aleatorio si possa immaginare. In genere con neve alta e compatta ci si affidava al manico della piccozza infisso nel pendio; altrimenti si cercavano roccette affioranti ove piantare un chiodo o passare un cordino su uno spuntone. Se mancavano queste opportunità, non restava che usare i chiodi da ghiaccio, grezzi chiodoni rettangolari con qualche dentino inciso sui bordi che, in emergenza, erano utilizzabili anche come chiodi da roccia. Oltre a fuoriuscire facilmente in caso di ghiaccio poco freddo, tali chiodi avevano il difetto di incrinare il ghiaccio con conseguente indebolimento del punto d’ancoraggio.

Bombardieri
Luigi Bombardieri

Alcune belle imprese sulle pareti Nord delle cime valtellinesi, avevano fatto capire a Bombardieri l’utilità di un chiodo più specifico e funzionale: era evidente che il futuro dell’arrampicata su ghiaccio sarebbe passato per muraglie sempre più ripide, magari anche con salti verticali. Bisognava quindi avere un chiodo facile da piantare, sicuro e altrettanto facile da togliere. Probabilmente, lo stimolo decisivo alla realizzazione di un prototipo, sorse dopo la scalata al Canalone della Forcola d’Argent. Bombardieri e le sue guide, Cesare Folatti e Peppino Mitta, non ebbero vita facile nel superamento della ripidissima strozzatura finale. Senza mezzi tecnici adeguati, Folatti fu letteralmente costretto a scavare un camino nel ghiaccio vivo, onde insinuarvisi e salire centimetro dopo centimetro. Così, fra il 1934 e il 1935, l’alpinista valtellinese iniziò i primi esperimenti che portarono a un prototipo: un chiodo semi-tubolare ottenuto dividendo un cilindro d’acciaio di circa 20 centimetri di lunghezza e 1,5 di diametro. Era un chiodo assai più elegante e sottile di quelli in commercio, costruito solo per il ghiaccio, in particolare per quello fragile e molto duro: la forma semi-tubolare, la punta affilata e la sottigliezza dell’acciaio si rivelarono efficacissime in queste condizioni, evitando il frantumarsi del ghiaccio sotto i colpi del martello.

La soddisfazione iniziale fu però ridimensionata in parte dalle prove di tenuta: i materiali allora disponibili erano, infatti, ancora un po’ insufficienti in fatto di resistenza. Per questo motivo la struttura a semi tubo fu sostituita da quella a tubolare che, oltre a ridurre ancor più la frantumazione del ghiaccio nella fase di ancoraggio, offriva maggiori garanzie. Il chiodo, così modificato, fu anche munito di alcune feritoie che, secondo le intenzioni dell’inventore, dovevano permettere al ghiaccio rimasto all’interno di far presa col ghiaccio esterno, aumentando la tenuta. Di certo parte delle prove si svolsero direttamente in parete e non è da escludere che il nuovo chiodo abbia favorito altri successi della cordata Bombardieri-Folatti che, fra il 1934 ed il 1935, salì le pareti Nord della Punta Thurwieser, del San Matteo, della Cresta Guzza  ed in particolare quella del Tresero.

Al termine di questa fase sperimentale, Bombardieri si ritenne pronto per dare ufficialmente la notizia dell’invenzione scegliendo le pagine del quotidiano locale “Il Popolo Valtellinese” che, il 31 luglio 1935, pubblicava la notizia. Da quel giorno la Sezione Valtellinese fece una vera e propria campagna pubblicitaria per lanciare il nuovo attrezzo. Immagini, recensioni, articoli e pagine di “réclame”, comparvero sui giornali locali e sulle riviste di alpinismo. Nelle foto pubblicitarie la guida bergamasca Giuseppe Pirovano, virtuoso dell’arrampicata su ghiaccio, s’innalzava su un muro verticale, assicurato al “magico” Arpione.

Ghiacciatore
Fu un grande balzo nel futuro…

Come spesso accade, l’invenzione suscitò le invidie e le critiche, non sempre giustificate, di alcuni alpinisti, fra i quali Giovanni De Simoni del GUF di Milano. In un suo intervento su “Lo Scarpone”, De Simoni critica l’invenzione, mettendone in luce tutti i possibili difetti, peraltro già riconosciuti dallo stesso Bombardieri. In particolare De Simoni segnalava che su ghiaccio “caldo”, il chiodo tendeva ad uscire se non era piantato dall’alto verso il basso; ma a questo inconveniente si poteva facilmente rimediare, praticando un piccolo gradino nel ghiaccio che permettesse di infiggere il chiodo in verticale. A dispetto della critica, l’Arpione Roseg incontrò sempre maggiori consensi. Non pago del successo, ma forse anche per rispondere alle critiche del De Simoni, Bombardieri pensò anche alla possibilità di impiegare il suo chiodo sugli strapiombi, ove era impossibile intagliare un adeguato gradino. Occorreva una tenuta “multi direzionale” e la soluzione fu presto trovata, pur a prezzo di un notevole appesantimento del chiodo: si trattava di due chiodi tubolari assemblati a mo’ croce di Sant Andrea e tenuti in posizione da una piastrina nella quale scorrevano, inserendosi nel ghiaccio in due direzioni diverse. Causa il peso e la laboriosità d’infissione questa versione non incontrò grandi favori, anche se un buon compromesso, poteva essere quello di utilizzare l’Arpione singolo per la progressione e il nuovo modello per il punto di sosta della cordata.

Il nuovo chiodo fu la più riuscita di tante altre piccole “invenzioni” per alpinisti, messe a punto, a cavallo della Seconda Guerra mondiale, dai valtellinesi, in una ventata creativa eccezionale. Lontani dai centri alpinisticamente più attivi e moderni e forse un po’ limitati economicamente, i “nostri” furono costretti ad arrangiarsi con le risorse a disposizione e una buona dose di ingegnosità montanara fabbricando in proprio il materiale da scalata. Di certo, l’Arpione Roseg è il primo chiodo da ghiaccio pensato secondo una concezione moderna, molto in anticipo sui tempi; infatti, solo nel decennio 1975-1985, comparvero alcuni “rivoluzionari” chiodi da ghiaccio tubolari con caratteristiche simili. Il più valido fra questi era lo SNARG, “inventato” dall’americano Jeff Lowe; oltre che nella qualità dei materiali, il moderno chiodo differiva dall’Arpione per avere una filettatura stretta e sottile che ne favoriva l’estrazione, per una sezione più larga e per l’anello fisso anziché mobile.

Il concetto del tubolare o del semi-tubolare è stato poi applicato con gran successo anche sulle becche delle moderne piccozze per la piolet-traction. Quella del “Bomba” é stata dunque un’intuizione tutt’altro che di poco conto, ma in tutta questa storia colpisce anche la sorprendente modernità nella gestione dell’idea.
Il chiodo fu brevettato e messo in vendita; i proventi furono poi utilizzati per la costruzione dei due bivacchi fissi più importanti del massiccio del Bernina, il Parravicini ed il Pansera. La costruzione dei due ricoveri era un altro passo verso la concretizzazione del progetto di Bombardieri, che vedeva nel rifugio Marinelli e nel territorio circostante un futuro polo di attrazione turistica.

Con moderna visione e spirito imprenditoriale, Bombardieri faceva compiere al CAI Valtellinese un grande balzo nel futuro: benché associazione volontaria, nulla impediva di investire del denaro per realizzare idee da mettere in vendita ed il cui ricavato sarebbe andato a potenziare le dotazioni sezionali e sviluppare iniziative future. L’Arpione Roseg era a disposizione di tutti, soci e non soci e per diffonderne la conoscenza si diede vita anche ad un notevole battage pubblicitario che ebbe sulla Rivista Mensile la sua sede privilegiata.

Insomma, la Sezione Valtellinese diventava anche una piccola azienda, di tipo ONLUS.  In questo fenomeno, giocò sicuramente un ruolo importante lo spirito imprenditoriale di Bombardieri, ragioniere e funzionario della CARIPLO, che mise a disposizione del sodalizio le sue doti di manager e di uomo d’affari.
Le scarse cronache a disposizione ci dicono che fu con largo uso di Arpioni Roseg che, nel 1938, la guida malenca Isacco Dell’Avo e Giannino Soncelli, si dice in competizione fra loro, salirono il canalone, allora assai seraccato nella parte alta, fra il Pizzo Sella e la parete rocciosa dove sorge il Bivacco Parravicini. Il canalone fu poi battezzato Parravicini.

Giuseppe Popi Miotti

http://www.fondazionebombardieri.it

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