Franco Michieli, vagabondo ma con giudizio, si racconta. E spiega come “farsi ritrovare” dal sentiero
C’è un aspetto che non convince nella filosofia di Franco Michieli espressa ora più compiutamente che in altre opere nel prezioso libretto “La vocazione di perdersi” (Ediciclo, editore, 91 pagine, 8,50 euro). Si rimane increduli nell’apprendere che è sufficiente imparare a “leggere la natura” per orientarsi in lande deserte e sconosciute senza bussola né orologi né, orrore!, satellitari. Davvero è sufficiente la naturalezza teorizzata da questo straordinario esploratore e geologo milanese per non perdersi o meglio per perdersi volontariamente (e con una certa voluttà) per poi imboccare vantaggiosamente una strada non prevista?
Ciò che conta forse, ma Michieli non lo dice, è che per affrontare traversate piene d’incognite com’è nel suo costume, occorre anche un bel sangue freddo, una grande fiducia in se stessi e nella propria buona stella, una preparazione fisica e una predisposizione mentale. E occorre anche poter disporre di quelle sensazioni corporee che gli psicologi chiamano felt sense: quelle sensazioni, cioè, che rivelano in maniera istintuale ciò che sta accadendo (o che sta per accadere) nell’ambiente attorno a noi. Poi ovviamente ci deve essere la volontà fortissima di sopravvivere a ogni costo attingendo a una parte del nostro cervello che si dice imparentata con quello dei rettili.
L’amico Franco, a suo agio nei grandi spazi, deve avere sicuramente una buona dose di felt sense in più rispetto a noi comuni mortali se è vero, come racconta, che fin dall’età di 19 anni ha affrontato disagi e fatiche attraversando le Alpi da mare a mare, da Ventimiglia a Trieste, qualificandosi come uno dei maggiori specialisti in “grandi viaggi a piedi su terreni difficili”.

Più tardi, in pieno disgelo sulle montagne del Nordland, una delle regioni più selvagge e disabitate della Norvegia settentrionale, Michieli in compagnia di un amico è riuscito a trovare con pazienza e un’innata fiducia in se stesso il passaggio in un dedalo di torrenti in piena, nevai, acquitrini, foreste. E’ arrivato alla meta con cronometrica precisione, come racconta in un indimenticabile film da lui stesso realizzato (La via invisibile). E come riferisce anche in questo libro che ha un sottotitolo apparentemente enigmatico: “Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti” (certe volte, intende dire, ci si stupisce di non avere ritrovato la strada e si attribuisce questa circostanza a cause naturali, estranee al nostro comportamento).
“La vocazione di perdersi” (bel titolo!) lo si legge in un soffio, affascinati dal brillante argomentare di Michieli. In realtà il saggio è piuttosto complesso nei suoi sviluppi e ci riporta all’infanzia dell’umanità, quando piccoli gruppi di noi abitavano regioni sconfinate, circondati da spazi selvaggi di cui non si poteva immaginare un termine. Eppure, osserva Michieli, animali e piante migravano attraverso tutta la terra.

A guidare quelle formichine che eravamo noi bipedi era dunque lo stimolo innato all’esplorazione. “Nel farlo”, assicura Michieli, “è lecito perdersi: venendo meno gli abituali riferimenti, si è stimolati ad acquisirne di nuovi, e intanto il caso favorisce incontri interessanti”. Quello che succede, talvolta, anche vagabondando per Milano, possibilmente senza soldi e con un solo biglietto della metropolitana in tasca.
Particolare importante. Il librino, la cui lettura è particolarmente raccomandabile non solo a chi ha sete di avventure, è contrassegnato dal numero 16 in una curiosa collana battezzata “Piccola filosofia di viaggio”. Il diciassettesimo è firmato da Enrico Camanni, è intitolato “L’incanto del rifugio” ed è “un piccolo elogio della notte in montagna”. Sicuramente da non perdere, anche questo.