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Montagne tradite all’Expo: una grande occasione mancata in questa sfarzosa succursale di Gardaland. Ne parliamo con il professor Salsa

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Alpi in festa: la carovana dello Sbrinz dedicata al famoso formaggio elvetico attraversa la valle Antigorio (ph. Serafin/MountCity)

Ha ragione sul Corriere della Sera del 27 maggio don Virginio Colmegna, direttore della Caritas Ambrosiana: l’Expo non sia solo una Gardaland, sia più attenta ai contenuti. Carente lo è, lo ribadiamo in questo sito, per quanto riguarda le Alpi che non godono di un padiglione, di un’installazione. Niente che le rappresenti ufficialmente con i loro 13 milioni di abitanti, con il loro prezioso e insostituibile ruolo svolto nel “nutrire il pianeta”. Con il solo contentino di un’annunciata Mountain Week dal 4 all’11 giugno voluta dalla Conferenza delle Alpi. Che cosa ne dice Hervé Barmasse, testimonial all’Expo della sua Valtournenche? Che cosa ne dicono le associazioni legate alla montagna, come la pensano i pubblici amministratori in Lombardia?

Nel padiglione Italia all’Expo c’è da rimanere incantati per l’area dedicata al mare, con immagini delle coste che si riflettono sul pavimento a specchi. Perché non dedicare un’analoga area alla montagna? Sì, è proprio vero, le Alpi a Expo sono trascurate. Lo confermano le lettere arrivate a MountCity dopo che sul sito ci si è chiesti come mai all’Expo, fra tanti arzigogolati padiglioni e cluster, non ce ne sia uno che rappresenti la regione alpina.

Nel filo conduttore dell’Expo, “nutrire il pianeta”, non rientra forse anche l’esigenza di ridare dignità al lavoro contadino, invogliare un ritorno nelle campagne o alle montagne che sempre più si spopolano, mostrare un ambiente alpino dove è piacevole vivere?

Tra le cause di questa carenza di visibilità dell’esposizione universale dell’ambiente alpino nella sua globalità (tracce sono riscontrabili in vari padiglioni, ma un discorso organico è sicuramente assente) rientra anche la crisi dell’identità tradizionale alpina. Ne parliamo con Annibale Salsa, appassionato studioso di cultura alpina dopo essere stato docente di Antropologia filosofica e culturale all’Università di Genova e dopo avere svolto l’impegnativo ruolo di presidente generale del CAI mentre ora è presidente della Commissione scientifica dell’Accademia della montagna.

Una spiegazione di questa assurda latitanza della regione alpina all’esposizione universale – che pure a Milano nel 1909 riservò ampio spazio a un CAI ancora in fasce – la si trova in un rinomato saggio di Salsa intitolato “Il tramonto delle identità tradizionali” (Priuli&Verlucca, 2007) in cui lo studioso spiega come le trasformazioni socio-economiche dell’età moderna abbiano determinato la crisi dell’identità tradizionale alpina e la progressiva marginalizzazione dello spazio alpino. Marginalizzazione che continua  a manifestarsi con effetti nefasti.

Di fronte a tale scenario, Salsa – dopo l’analisi delle vicende culturali, storiche e sociali che lo hanno causato – ipotizza gli sviluppi futuri che potrebbero nella migliore delle ipotesi coincidere con una rinascita, attraverso la rinnovata consapevolezza dei giovani e il fenomeno del neo-ruralismo. Uno scenario di cui evidentemente gli ideatori dell’Expo non hanno voluto tenere conto.

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Annibale Salsa

“Prevale sempre l’egemonia delle tre ‘s’: see, sun, sex”

Non trova singolare, professor Salsa, che la montagna – che sempre più rischia di trasformarsi in una Disneyland – non abbia trovato un’adeguata rappresentazione nella Disneyland di Expo?

“Non mi stupisco più di tanto riguardo alla scarsa attenzione per la montagna. Della montagna ci si ricorda soltanto nel periodo invernale in relazione alla monocultura dello sci da pista. Tale modello turistico ha accentuato il processo di disneylandizzazione delle Alpi circoscrivendo la spazio alpino alla sola dimensione ludica della ‘glisse’ fine a se stessa”.

Lei ha osservato che l’Italia è un paese montuoso ma non montano. Lo ha, anzi, definito un paese “balneare”. Da questo può derivare la scarsa visibilità della montagna e la scarsa attenzione che le dedicano i politici?

“Esiste un profondo divario fra la ‘montuosita’ di un territorio e la ‘montanità’ di una cultura e di una società. In Italia, salvo poche eccezioni, non si è formata una solida cultura della montagna da esibire con orgoglio. Anzi, per effetto di contaminazioni urbanocentriche, si è persa anche laddove era radicata da secoli. L’Italia viene presentata dai media come un Paese ‘balneare/costiero’ sulla base dell’egemonia delle tre ‘s’: see, sun, sex. A questo modello hanno dovuto piegarsi anche le genti alpine”.

Pensa che in Italia esista una cultura del paesaggio, quello alpino in particolare?

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Il villaggio walser di Binn, nel Vallese (ph. Serafin/MountCity)

“La cultura del paesaggio, in Italia, era orientata fino alla seconda guerra mondiale nella direzione delle città d’arte e dell’estetismo idealistico. Dopo la guerra, le emergenze ambientali hanno contribuito a costruire una cultura alternativa di tipo rigidamente vincolistico e orientata agli aspetti fisico-naturali come l’inquinamento, la wilderness ecc. Soltanto da pochi anni, anche in relazione al varo della Convenzione europea del Paesaggio (ottobre 2000), si incomincia a parlare di paesaggio in modo corretto, ossia di interazione fra natura e cultura e di costruzione socioculturale del territorio. In tal senso, la nozione di ‘paesaggio culturale’ incomincia timidamente a farsi strada nell’opinione pubblica e nelle pubbliche amministrazioni (Regioni, Provincie, Comuni). Il paesaggio alpino è ancora rappresentato oleograficamente. Non si tiene conto che soltanto l’agricoltura di montagna e l’alpicoltura sono in grado di mantenerlo vivo. La formula più virtuosa di valorizzazione paesaggistica consiste nell’interazione ‘agricoltura-turismo’. L’Alto Adige/Sudtirol insegna. Qui le produzioni alimentari, condotte con pratiche non intensive, generano eccellenze enogastronomiche. Senza l’agricoltura e l’alpicoltura il paesaggio alpino e la sua biodiversità saranno destinati a scomparire con l’avanzata dell’inselvatichimento dei prati e dei pascoli. Il paesaggio è, infatti, discontinuità, ovvero alternanza fra spazi aperti e spazi chiusi. I primi sono generati dalle attività umane. I secondi dal dinamismo della natura. La chiusura degli spazi aperti dall’uomo decreterà la fine del paesaggio alpino”.

Quale potrebbe essere una chiave di lettura con cui interpretare in una grande rassegna il sistema complesso delle terre e delle genti nelle Alpi?  

“La chiave di lettura deve consistere nell’impegno di educare all’interpretazione del paesaggio attraverso la decifrazione della grammatica e della sintassi dei segni che lo identificano nella dialettica fra natura e cultura, fattori fra loro interdipendenti e non separabili dualisticamente”.

Lei descrive le Alpi come serbatoio di materie prime, ma anche come contenitore di spazi naturali di prim’ordine all’interno di un continente industrializzato e urbanizzato. Il ruolo del fattore natura nel plasmare uomini e territori viene oggi adeguatamente riconosciuto in questo generale clima di globalizzazione?

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Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi sono analizzati in questo libro di Salsa.

“Sulla natura occorre fare chiarezza per non cadere in forme di idealizzazione. La natura alpina è da secoli una natura ‘socializzata’ dall’opera di dissodamento delle comunità che si sono insediate sul territorio. Le Alpi sono le montagne più antropizzate della Terra. A seguito dell’abbandono, nel secondo dopoguerra si è assistito a un progressivo re-inselvatichimento con una media che, nell’ultimo decennio, oscilla fra l’8 e il 10%. La wilderness di ritorno è lo specchio della fine di un modello di civilizzazione alpina e di paesaggio. La dicotomia che si è prodotta fra ambiente naturale e attività umane ha condotto a una esasperazione degli opposti: da un lato un naturalismo integralista, iperprotezionistico e, dall’altro, uno sfruttamento speculativo senza precedenti”.

La crisi dell’identità alpina quali riflessi può avere sui 13 milioni di abitanti che insistono su un’area di 191.000 kmq?

La crisi dell’identità alpina può generare fenomeni di spaesamento e di marginalizzazione rispetto alle città e alle pianure. Per questo bisogna che la Macroregione alpina, di cui si discute in questi mesi, rispecchi una perimetrazione corrispondente alla Convenzione delle Alpi e non includa tutto il territorio delle Regioni miste. Altrimenti le Alpi ridiventano periferiche non più verso Roma ma verso Milano, Torino, Venezia, Trieste, Genova. Spesso il centralismo regionale è più pernicioso di quello nazionale, più lontano e distratto”.

Riattivare il mito alpino senza cadere nell’oleografia: pensa che sia ancora possibile, Expo a parte? E con che genere d’iniziative?

“La parola ‘mito’ non è un’astrazione o una rappresentazione oleografica ma significa, come insegna l’etimologia greca antica, ‘racconto’ denso, meta-scientifico, immaginifico. Pertanto, occorre che venga raccontata di più la realtà alpina per meglio conoscerla e farla conoscere dai diversi punti di vista: storico, geografico, antropologico, demografico”.  

Il Club Alpino Italiano ha per scopo di far conoscere le montagne, di promuoverne lo studio e la tutela dell’ambiente naturale e sociale. Quale migliore occasione dell’Expo poteva esserci, com’era avvenuto all’esposizione del 1909, per dare visibilità a questi nobili principi?                      

“Sicuramente il Club alpino avrebbe dovuto avere un ruolo attivo in base ai suoi principi statutari, come era accaduto nell’esposizione del 1909. Expo è una grande vetrina utile a sfatare pregiudizi e a decostruire vecchi stereotipi che spesso rappresentano il CAI come un’associazione di buontemponi, confusa con gli Alpini, o di incalliti cultori della performance tecnico-atletica”.

Per approfondimenti:

https://mountcity.it/index.php/2015/05/22/le-alpi-allexpo-una-cenerentola-eppure-il-loro-contributo-per-nutrire-il-pianeta-e-piu-che-evidente/

http://www.alpconv.org/it/organization/presidency/expo2015/default.html

http://www.expo2015.org/it/

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