I “ribelli” del Bitto depongono le armi

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L’accordo firmato a Gerola Alta (Sondrio). 

Miracolo a Milano. Venti di pace spirano sull’Expo dai pascoli della Valtellina in singolare contrasto con i venti di guerra che soffiano invece impetuosi sull’inaugurazione del 1° maggio originati dal risentimento diffuso contro le grandi opere, contro lo sfruttamento del territorio e la mortificazione di ogni processo democratico di scelta. La pace i valtellinesi l’hanno fatta proprio in vista dell’Expo e dopo vent’anni di battaglie. Protagonisti i produttori del famoso (e squisito) formaggio Bitto, ingrediente indispensabile di fragranti sciatt e squisiti pinzocheri: il meglio della cucina delle nostre valli lombarde.

Oggetto del contendere è stato il sistema di produzione. Storico o “modernizzato”? Con accanimento i “Ribelli del Bitto” hanno difeso in tutto questo tempo il loro rustico e rigoroso disciplinare rifiutando l’introduzione dei mangimi nell’alimentazione dei bovini e dei fermenti selezionati. Un anno fa venne annunciata una calata a Milano alla testa dei “Principi delle Orobie” (formaggi come l’Agrì Valtorta, il Bitto storico, il Branzi, il Formai de Mut dell’alta Valle Brembana, Stracchino e Strachitunt, per un totale di tre Dop e tre presidi Slow Food). Acqua passata, ora in vista dell’Expo che di guai ne ha già tanti, il marketing impone la strategia del volemose bene, complice Slow Food che è sempre stato a fianco dei produttori storici. Tutti d’accordo sull’importanza di presentarsi ad Expo in maniera coesa per promuovere insieme e con più forza il territorio valtellinese, le sue eccellenze e le sue filiere di qualità.

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Paolo Ciapparelli, presidente del Consorzio Bitto Storico (ph. Serafin/MountCity).

Torna a sorridere Paolo Ciapparelli, presidente del non più belligerante Consorzio Bitto Storico. “Con questo progetto”, s’illumina aggirandosi nel forziere della casera di Gerola Alta dove preziose forme di Bitto sono messe a stagionare, marcate con i blasoni di famiglie illustri, “lo sguardo si allarga anche a un turismo in chiave agroalimentare, alla valorizzazione delle tradizioni locali, alla tutela del paesaggio e del lavoro nelle valli”. E’ un salutare raggio di sole questo che rischiara il Bitto e una bella rivincita necessaria per uscire dalle nebbie della contesa. Che a grandi linee può essere definita una lotta intestina tutta condotta sul verde campo di battaglia valtellinese in nome e per conto dei 14 alpeggiatori che nelle valli Albaredo e Gerola (dove il torrente Bitto scende verso la bassa Valtellina) continuano a produrre questo inimitabile formaggio Dop.

Il loro segreto? Praticare il pascolo turnato. Ciò significa che la mandria è condotta attraverso un percorso a tappe, mentre lungo la via i tradizionali calècc – millenarie costruzioni di pietra il cui nome sarebbe di etimologia pre-latina, derivando da kal (roccia) e cala (posto protetto) – fungono da baite di lavorazione itineranti.

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Ciapparelli con il diploma d’onore ricevuto dal Bitto all’esposizione internazionale del 1906 a Milano. Ph. Serafin/MountCity

Perché si sa: se si vuole che il formaggio mantenga la fragranza degli alti pascoli bisogna lavorarlo prima che il suo calore naturale si disperda e i batteri si moltiplichino. Piaccia o no, questa procedura avviene però soltanto nelle valli del Bitto. Diverso e ben più elastico è infatti il disciplinare del Bitto prodotto altrove in Valtellina, al quale gli ex “ribelli” non intendevano e non intendono sottostare.

Che esista un Bitto anche in tutti gli altri alpeggi della Valtellina (e della Valchiavenna) a questo punto viene pacificamente accettato dai produttori storici che hanno ormai ottenuto un riconoscimento della specificità del loro Bitto dal mercato, da autorevoli esperti e ora anche dalle istituzioni.

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Il Centro del Bitto a Gerola Alta (ph. Serafin/MountCity)

L’Expo Milano 2015 viene ora riconosciuta come un’opportunità unica per presentare ad un pubblico più vasto il modello di integrazione promosso dalle parti “tra realtà produttive diverse ma complementari e accomunate da un forte legame con il territorio di origine, la sua storia e le sue tradizioni”.

Prima regione agricola del paese – 50 mila aziende, oltre 4 milioni di tonnellate di latte, il 40% del totale nazionale – la Lombardia aveva chiaramente bisogno di questa grattugiata di pace e di ottimismo. Era forse accettabile la mancanza di un accordo in una provincia come quella di Sondrio dove la produzione di latte (700-800 mila quintali l’anno, il 60% dei quali destinati alla caseificazione) rappresenta una voce fondamentale dell’economia?

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