La valanga vista da sotto. Così la ricorda Rolly Cotti
Da quando, nel 2007, una valanga lo ha investito in Valgrisanche durante la salita al rifugio Buzzi nell’ultimo tratto non aggirabile dove la valle è più stretta, il milanese Roberto Rolly Cotti è diventato una specie di punto di riferimento obbligato per casi analoghi. “Il fatto di esserci finito sotto non fa di me il guru della valanga”, precisa tuttavia, “anzi, dovrebbe essere vero il contrario. La parola valanga, da quel fatidico 25 aprile, in famiglia è diventata quasi un tabù”. In ogni modo Rolly volle generosamente raccontare la sua esperienza intervenendo – era ancora convalescente con le stampelle – nel 2008 al Palamonti di Bergamo in occasione di una “Giornata bianca” in cui si è parlato non stop dalla mattina alla sera di neve e valanghe con la partecipazione di tecnici, esperti, medici, attori, cori e delle unità cinofile del CNSAS. Il tutto con l’organizzazione della valorosa Commissione culturale del CAI BG. Va comunque precisato che Rolly si è salvato grazie alla tempestività e alla competenza dei compagni che lo hanno soccorso, tutti del Club Alpino Italiano. In calce all’articolo pubblichiamo anche un quadro statistico dell’Associazione Italiana Neve e Valanghe (AINEVA) riguardante l’altissimo tasso di mortalità degli incidenti in valanga: particolare che rende la testimonianza di Rolly eccezionalmente interessante.
Sembrava cosa da poco, provai a scappare
Chi disse “preferisco aver fortuna che talento” percepì l’essenza della vita (Woody Allen in “Match Point”). Quante volte un minuscolo evento casuale può cambiare il corso della nostra vita? Come nel film citato la pallina da tennis che prende il nastro può ricadere indifferentemente al di qua o al di là della rete, determinando l’esito della partita, così un minuto, un centimetro, una parola, a volte sono la differenza tra riuscire o fallire, vincere o perdere, vivere o morire.
Certo, il blocco di neve che si stacca proprio quel giorno, proprio in quel momento, proprio in quel punto, non lo posso considerare un evento fortunato. Sarebbe bastato un altro minuto, forse mezzo, e sarei stato oltre. Se solo non mi fossi attardato a sistemami la linguetta dello scarpone, o avessi adottato un’andatura un po’ meno turistica. E d’altro canto se sono qui a scrivere, anche se un po’ acciaccato, è solo per un insieme di circostanze talmente fortunate da far pendere il bilancio della giornata decisamente a mio favore.
Innanzitutto il mio compagno più vicino, pochi metri avanti a me, per fortuna (sua e mia) viene coinvolto solo marginalmente e ha, evidentemente, l’autosoccorso nel sangue. L’istante in cui mi sento toccare la gamba destra è per me il segno che la pallina da tennis è finita dall’altra parte. Prima non avrei scommesso un euro sulla mia sopravvivenza.
Sono l’unico travolto di un gruppo numeroso, esperto e attrezzato che può dedicare, e dedica, tutte le sue energie al mio disseppelimento. Fossimo finiti sotto in tanti, o fossimo stati in pochi, chi può dire come sarebbe andata.
Poche settimane prima avevo sottoscritto una polizza sulla vita insistendo perché fosse rimossa una clausola relativa al caso di morte per congelamento. Metti che finisco sotto una valanga, avevo scherzato con l’assicuratore. Chissà che faccia avrebbe fatto!
Bando alle ciance. L’evento valanga, pur con tutta la sua drammaticità, non è descrivibile a parole senza cadere nel banale. Vorrei solo mettere nero su bianco le risposte ad alcune domande che, per essermi state rivolte da più persone, ritengo di possibile interesse comune.
Ho provato a scappare? Certo, appena ho visto il distacco, che pure all’inizio sembrava cosa da poco, ho cominciato a risalire il versante opposto con tutta la lena possibile. Ma è questione di secondi, non è che di strada se ne può fare tanta. Magari in fase di discesa ci si può mettere a uovo e tentare una libera alla Hermann Mayer. Ma in salita, con le pelli ai piedi, il raggio d’azione è veramente risibile.
Ho provato a nuotare, come suggeriscono di fare? No, non ci ho provato. O meglio, non sono neanche riuscito a pensare di ipotizzare di provarci. L’onda d’urto che precede la massa valanghiva non ha nulla a che vedere con il vento, neanche con la bora a centodieci che pure ho provato a Trieste, anni fa, e che mi faceva barcollare, è vero, ma non mi sollevava mica da terra! Dopo lo schiaffo dello spostamento d’aria, con relativo atterraggio scomposto, è difficile fare qualunque cosa.
E poi la valanga, la mia valanga almeno (di altre non ho esperienza), non ha niente a che vedere con l’acqua. E’ come trovarsi all’interno di una gigantesca betoniera: lo stile libero riesce malissimo. La massa ti avvolge, t’impasta, ti disarticola. Già mantenere una congruenza morfologica è un’impresa impossibile, coordinare dei movimenti è pura teoria. Forse varrebbe la pena di togliersi gli sci e rannicchiarsi per cercare di salvare gli arti, ma non è detto che così non si finisca più sotto. Comunque, pensare di riuscire a dominare in qualche modo la situazione è per lo meno illusorio.
Crearmi uno spazio, una nicchia, una bolla d’aria per poter respirare? Sì, ci ho provato. Ma no, non ci sono riuscito. Per un attimo ho creduto di avercela fatta. Quando mi sono fermato. Poi è arrivato il resto della neve con il suo dolce peso da ippopotamo. Non solo si è ripresa tutti gli spazi disponibili: si è anche piazzata sul mio sterno rendendomi la respirazione complicata a prescindere dall’aria disponibile.

Se si ha cognizione del sopra e del sotto? No, per niente. Non avrei mai detto di essere praticamente a testa in giù. Dicono di usare la saliva per orizzontarsi, ma questo ha senso solo se hai a disposizione dello spazio per fare qualcosa. Quando sei imbalsamato in un pilone di cemento non è che ti serva molto sapere dove sta il sopra.
C’è luce? Sì, giurerei di sì. Non che ci sia molto da vedere, ma la mia impressione è quella che i cristalli di neve davanti ai miei occhi fossero visibili.
Si sentono i suoni? Sì, e anche benissimo. Anche un metro e mezzo sotto sentivo tutto quello che si diceva fuori. Non viceversa, nel senso che fuori non sentivano niente di quello che urlavo io. Strano effetto monodirezionale della propagazione del suono.
Fa freddo? Probabilmente sì, ma almeno nei primi minuti è l’ultimo dei problemi. Poi sì, un freddo becco, ma per fortuna ero giá fuori.
Mi è passata davanti tutta la vita? No, francamente no. L’impressione è quella di non avere pensato quasi niente. Per un po’, forse un minuto, ho creduto di essere spacciato, ma non c’è stato molto oltre questa lungimirante osservazione. L’immagine confusa di mia moglie che spiega ai bambini il perchè e il per come il papà non tornerà più, con l’assurdo sollievo di non essere io a doverlo fare. Un inizio di rassegnazione forse. Poi il tocco magico sullo scarpone e la certezza immediata che ce l’avrei fatta. Da lì tutti gli sforzi si sono concentrati sullo stare calmo, sul respirare piano, sul consumare il meno possibile, sullo stare vivo. Per la proiezione completa della mia vita non c’è stato proprio tempo.
E, infine, tornerò in montagna dopo questa singolare esperienza? E’ la risposta più difficile. Sono talmente lontano dalle condizioni fisiche minime anche solo per salire sul monte San Primo che non provo nessuna pulsione, nè di ritorno nè di ritiro. Cosa mi verrà voglia di fare, quando potrò farlo, non riesco a immaginarlo. Mi si fa notare che si è trattato di un evento non provocato, del tutto casuale, una vera sfiga come si suol dire, e che non posso rimproverarmi nessuna negligenza, nessun azzardo. Cosa vera in gran parte.
Certo, se avessi scelto di uscire dal traccione e di passare più sulla sinistra… beh, avrei vinto il premio Nobel della premonizione, ed è solo uno scrupolo di coscienza che, di fronte al danno, mi porta a interrogarmi sulle scelte improbabili che avrebbero potuto evitarlo. Tuttavia, forse proprio questa valutazione di ineluttabilità mi disturba. Fosse successo mentre, come tante volte, mi assumevo un rischio più o meno calcolato, potrei sempre pensare che, con una condotta più prudente, sarei in grado di aumentare a mio piacere il livello di sicurezza. Se fai una cazzata, dice il saggio, puoi sempre riprometterti di non cascarci più. Invece mi trovo, come unica consolazione, quella di pensare che una sfiga del genere non può capitarmi due volte: cosa però del tutto falsa, come il calcolo delle probabilità insegna.
La paura è un buon motivo per non tornarci. Poi ci sono i motivi per tornarci. Il divertimento. Fino a oggi ho sempre vissuto la montagna con serietà ma anche con spensieratezza. Un grande, immane, incommensurabile divertimento. Riuscirei a divertirmi come prima sapendo che a casa c’è una famiglia che conta i minuti alla fatidica telefonata, ok, tutto bene, siamo alla macchina? Fino a oggi la mia attività montanara è stata, per la mia famiglia, un mero problema di assenza. Ora potrebbe diventare un grosso motivo di stress. Insomma, dobbiamo guarire in quattro da questa faccenda.
In conclusione, l’epilogo. Come recitano i sacri testi, la probabilità di sopravvivere sotto una valanga è più del novanta per cento nei primi cinque minuti. Mai tempo fu calcolato con più giudizio. Quando vedo un guanto che spazzola gli ultimi strati di neve davanti alla mia faccia, sono passati esattamenti cinque minuti, e la mia impressione è che non avrei retto il sesto. Forse solo una sensazione, nessuno potrà mai dirlo.

L’immensa goduria di respirare è solo parzialmente mitigata da un dito che mi viene prontamente infilato in bocca alla ricerca di corpi estranei, come da procedura. Pare che la mia prima richiesta sia stata quella di levarsi dai testicoli, non in senso figurato ma strettamente fisico. D’altro canto non dev’essere facile capire come sono posizionato, mezzo Heather Parisi e mezzo “Misery non deve morire”. A partire dalle angolazioni improbabili degli arti inferiori i miei testicoli potrebbero trovarsi dovunque, dunque è ragionevole che qualcuno, nell’ansia totalmente condivisibile di salvarmi la pellaccia, ci si sia piazzato sopra. Vedo facce di compagni che credevo molto più indietro. Avranno preso uno skilift, viceversa non mi spiego come possano essere già qui. Il resto è un valzer di scavi archeologici, teli termici, elicotteristi acrobatici, medici sans frontière, barelle, ambulanze, freddo, felicità, dolore fisico come non mai. Mi concentro sulla linda stanza d’ospedale dove, prima o poi, dovrei approdare per un meritato riposo sotto cospicua dose di antidolorifici. Un miraggio per il quale ci vogliono circa quattro ore, in gran parte spese per tirarmi su la temperatura da trentuno ai trentasei e mezzo regolamentari. Quando alla fine mi sparano nel calcagno il ferro per la trazione mi avvisano che mi farà un po’ male, ma a me sembra poco più di una puntura di insetto. Ormai ho la soglia del dolore tra Rambo e l’”uomo chiamato cavallo”. Finalmente, verso le quattro, il sogno si avvera: sono in una linda stanza di ospedale con una pera di allucinogeni da 500cc appesa alla gruccia della flebo e non sento alcun dolore. E’ il 25 aprile, giorno della Liberazione. Da quest`anno, per me, non solo dai nazisti.
Roberto “Rolly” Cotti

La (rara) fortuna di sopravvivere
L’incidente da valanga ha una elevata mortalità. Se si confronta il numero di vittime nel corso di 15 anni, anche solo con i morti che si hanno in Italia in un anno sulle strade, il confronto appare improponibile e anche gli sforzi economici rivolti alla prevenzione sproporzionati rispetto all’entità del fenomeno. Però mentre per ogni 100 incidenti stradali si contano “solo” 3 morti,100 incidenti da valanga provocano più di 60 vittime. Ecco quindi che l’incidente da valanga, con il suo alto tasso di mortalità, assume una dimensione diversa. Analizzando il tasso di mortalità per tipologia di attività appaiono subito delle diversità, anche se il valore rimane in ogni caso estremamente alto. In particolare, gli incidenti da valanga che coinvolgono alpinisti sono estremamente drammatici con 1,1 vittime per incidente mentre nello sci alpinismo il valore è di 0,6 vittime per incidente. Nella pratica dello sci fuoripista il tasso di mortalità è inferiore con un valore di 0,42. Certamente nello sci fuoripista un ruolo decisivo per la sopravvivenza lo gioca la vicinanza dei soccorsi rispetto alle attività praticate in zone remote di alta montagna. Inoltre nei comprensori sciistici, oltre agli addetti agli impianti di risalita, anche gli sciatori possono essere dei potenziali spettatori di eventuali incidenti e questo determina, in via generale, una elevata probabilità che l’allarme sia dato tempestivamente e che i soccorsi arrivino sul luogo dell’incidente in breve tempo.
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