Il grande cuore del “ragno delle Dolomiti”

“Povero vecchio”. Nel recente riaffiorare sulle grandi testate giornalistiche dei gravi sospetti che da tempo gravano sulla veridicità della sua scalata (1959) al Cerro Torre, Cesare Maestri si è sentito anche apostrofare in questi termini da penne che si ritengono autorevoli. Che Maestri abbia raggiunto o no la vetta del Cerro Torre con Toni Egger, si trascura il rispetto dovuto a un uomo che ha scritto pagine di storia alpinistica (non solo sul Torre) e ha vissuto grandi passioni. Fa rabbia vedere che nessuno accenna, nel turbinio di accuse, rivelazioni e ipotesi, al grande cuore di Maestri che tante volte ha messo in gioco la sua vita per correre in soccorso di chi la vita se la stava giocando o se l’era già giocata. Sarebbe bello che sulla Gazzetta dello sport o sulle altre grandi testate si parlasse anche di questa sua vocazione alla solidarietà. Lo facciamo qui nel nostro piccolo, attingendo alle pagine di “Soccorsi in montagna” di Roberto e Matteo Serafin (Ferrari editore, 2004, Premio speciale “Gambrinus, G. Mazzotti). Per raccontare chi è e chi è stato davvero Maestri, il “ragno delle Dolomiti”.

Maestri ed Egger
Al Torre nel ’59 con Toni Egger (a ds).

Tanti soccorsi e nemmeno una parola di gratitudine

I primi di marzo del ’51 Cesare Maestri, il Ragno delle Dolomiti, supera gli esami di portatore alpino, titolo che lo abilita a guidare clienti su vie di roccia e ghiaccio. Ciò significa che finalmente può guadagnarsi da vivere con il suo lavoro di guida. Alla fine della primavera dello stesso anno è richiamato militare. In settembre la Scuola Militare Alpina si trasferisce al Passo Sella e al termine del corso il direttore scrive sul suo libretto di guida: “Il Maestri, alpino di leva presso la Scuola Militare Alpina, ha svolto mansioni di istruttore al corso di perfezionamento per ufficiali e sottufficiali delle Truppe Alpine. Si è dedicato con passione e senso della responsabilità dimostrando ottime capacità di istruttore. Si è inoltre prodigato in modo ammirevole nel recupero di un alpinista civile caduto durante la discesa dalle Cinque Dita. Nell’ardua impresa effettuata di notte sono risaltate le qualità morali e fisiche del Maestri generoso e fortissimo…”. Ancora oggi dopo tanti anni Maestri racconta che si sente straziare ripensando alla sua prıma operazıone dı salvataggio che racconta nel suo libro …E se la vita continua.

L’esperienza del ragazzo recuperato al Passo Sella, le incertezze sul modus operandi, i possibili errori di cui il Ragno delle Dolomiti non si dà pace trovano riscontro nel vissuto di tanti altri soccorritori della sua epoca. Perché quello era il modo generoso ma approssimativo con cui si agiva. Ognuno si arrangiava come poteva. Del resto, c’era poco da scegliere. Le guide alpine erano obbligate a svolgere azioni di soccorso. Nei limiti delle loro capacità, s’intende. “In pratica, il soccorso alpino è sempre esistito”, spiega Maestri, “nel senso che alcuni di quelli che abitavano sul posto quando sentivano che era accaduta una disgrazia in montagna si tiravano su le straze per andare a portare aiuto o comunque a recuperare la salma. Per quanto la gente di montagna sia chiusa, c’è sempre stato questo senso di solidarietà, perché fa parte del suo modo di vivere, per cui il soccorso alpino non è nato da solo, ma l’hanno inventato tutti quelli che hanno cercato di mettere qualche cosa di nuovo nell’ambito della sicurezza.

“Quando sono diventato portatore all’inizio degli anni Cinquanta mi sono trovato per legge nelle condizioni di dovere intervenire là dove era necessario che l’azione si svolgesse in parete. I volontari ci seguivano ai piedi della parete e poi aspettavano che la parte più tecnica e complessa della missione si compisse. Prelevavano i feriti o i morti per caricarli sulle barelle o sulle slitte dopo che noi guide alpine li avevamo strappati alla montagna. A ciascuno il suo, tutti avevano un bel da fare. Più tardi sono cominciate le esercitazioni, ma a quell’epoca il soccorso era ancora tutto da inventare. Poi il dottor Scipio Stenico ha cominciato a diffondere i primi attrezzi, ed è arrivato, molto atteso, il cavo Gramminger che ci avrebbe agevolato nelle calate. Ricordo benissimo quando ci calavano dalla cima con quel filo metallico. Era una corda di circa 6 millimetri, dicevano che fosse monitorizzata ai raggi X, dunque integra e affidabilissima. Era formata da vari spezzoni con degli occhielli per poter aggiungere altri cavi.

“Ma porco can…tegniralo?”, mi chiesi la prima vola che usai quel cavo sul Catinaccio. Mentre mi calavo avevo fieri dubbi che tenesse fino in fondo. Perché succedeva questo: che il cavo s’incastrava nella roccia nei punti di giuntura e c’era come un intoppo che produceva un inquietante sobbalzo. L’elicottero? Sulle prime era un semplice mezzo di trasporto, si limitava a portare in cima quel materiale che prima ci caricavamo sulle spalle. Sempre che il pilota facesse fino in fondo il suo dovere. Ricordo che mentre andavamo a recuperare una tedesca sul Crozzon ho chiesto al militare che era ai comandi di portarmi in vetta e poi di andarsene. Lui mi rispose che non era tenuto a rischiare. Cosa assolutamente non vera perché a differenza di me era pagato per farlo. Gli ho detto il fatto suo e in vetta, come l’onnipotente ha voluto, ci siamo arrivati. I miei compagni di soccorsi? Quando andavo con Bruno e con Catullo Detassis mi sentivo perfettamente e finalmente a mio agio. La loro presenza voleva dire sicurezza al cento per cento. La volta che sono venuti a soccorrere Luciano Eccher al Campanile Basso, legato alla mia corda e nell’impossibilità di muoversi, è stata l’unica in cui io non mi sono trovato dalla parte dei soccorritori.

“Ma se nessuno è mai stato costretto a venirmi a cercare ciò dipende dal fatto che sono sempre riuscito a mettere in pratica il mio codice d’onore. Poche regole, eccole: 1) mai mettere a repentaglio la vita di chi si affidava a me, 2) mai mettere a repentaglio la vita dei soccorritori per salvare la mia, 3) mai rischiare la vita per una montagna, 4) smettere di arrampicare il giorno in cui avrei sentito il bisogno di cedere a qualcun altro il mio posto di capocordata”.

Maestri e Fava su Cima Tosa 2000
Sulla cima della Tosa con Cesarino Fava, suo compagno nella tragica esperienza del 1959 (ph. Serafin/MountCity)

Maestri ricorda come con l’accademico Marino Stenico negli anni Sessanta si fosse creata una specie di task force per interventi che richiedevano una particolare perizia. Un giorno, racconta, arriva a Trento la notizia che sulla Micheluzzi alla Marmolada sono morti due tedeschi. Né i cortinesi né quelli di Canazei sono in grado di tirarli giù. Gli vanno sotto a pochi metri di distanza, quasi li accarezzano, ma la parete è davvero brutta e strapiombante, per quante acrobazie facciano non riescono ad agganciarli. Poi arrivano i trentini. Ci sono Stenico, Bepi De Francesch, Maestri. “Quei due sono lì da tre settimane, abbastanza ben conservati. Ma come pensare di lasciarli lì ancora a lungo? A un certo punto torna il cattivo tempo. Allora prendo una drastica decisione a dispetto di De Francesch che come poliziotto non può digerirla: riesco ad afferrarli e a metterli pancia contro pancia, la faccia di uno nelle gambe dell’altro, li lego ben bene con la loro corda e li spingo nel vuoto. Finiscono senza ulteriori danni in mezzo alla neve. Del resto non c’era alternativa. O li lasciavamo lassù o avremmo fatto una brutta fine anche noi”.

La gratitudine? “Una sola persona me l’ha espressa”, racconta Mestri. “Ma ho sentito dire che anche ai chirurghi succede qualcosa di simile. C’è un’inesplicabile forma di rancore nei confronti di chi ti ha salvato le penne, come a volere cancellare una parentesi negativa della vita in cui sei stato costretto a delegare qualcun altro di provvedere alla tua sopravvivenza. Ma ogni operazione in montagna finita in tragedia è stata per me un pesante trauma. Ogni qualvolta chiudevo nel sacco-salma un alpinista caduto avevo la sensazione di incastrargli dentro anche un pezzo di me stesso. Per difendermi da quel pericolo, avevo imparato ad assumere un distacco che poteva sembrare cinismo ma che in verità era solo un modo per non morire un po’ anch’io a ogni tragedia. Non è umano provare rancore verso un morto che fino a un attimo prima parlava, pensava, amava, era atteso, nutriva speranze e cullava sogni. Eppure, ogni volta che ho recuperato il corpo di una persona in qualche modo responsabile della propria morte, ho sentito dentro di me un sentimento di pietà misto a rabbia. La rabbia di non riuscire a trovare una risposta alla domanda: perché un uomo deve gettare via la propria vita?”.

da “Soccorsi in montagna” di Roberto e Matteo Serafin, Ferrari editore, 2004

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