Passato e presente dell’architettura di rifugi e bivacchi

Si è svolto il 19 novembre 2014 in via Solferino, presso la sede centralissima dell’Ordine Architetti di Milano, un seminario dedicato alla costruzione di rifugi e bivacchi, un’occasione di incontro e di confronto attorno a un tema fino a oggi non del tutto esplorato e approfondito professionalmente, soprattutto nel nostro paese. I rifugi hanno segnato, prima delle due guerre, i confini geopolitici dell’Europa costituendo veri e propri baluardi, ha premesso Luca Gibello, relatore e promotore dell’incontro assieme a Roberto Dini con cui ha fondato l’associazione Cantieri d’Alta Quota www.cantieridaltaquota.eu costituitasi nel maggio del 2012 a Biella con l’obbiettivo di favorire divulgazione e condivisione delle informazioni storiche, edilizie, progettuali, geografiche, sociali ed economiche sulla realtà dei punti d’appoggio in alta montagna. Le loro caratteristiche la loro funzione in oltre un secolo di storia delle Alpi e della nostra società sono però profondamente mutate e l’evoluzione dei rifugi alpini rappresenta un utile cartina di tornasole su come cambia la frequentazione della montagna.

Importante a questo proposito fare “il punto”, assieme a Samuele Manzotti, architetto e presidente della Commissione centrale rifugi del CAI, sulle trasformazioni in atto in un settore dove bisogna fare i conti con importanti innovazioni tecnologiche, anche per far fronte alle nuove richieste di un utenza che da un certo momento in poi ha cominciato a considerare il rifugio più come una meta a se stante che come un punto di appoggio per raggiungere la vetta. Il CAI, spiega Manzotti, ha esercitato un ruolo primario nella costruzione dei rifugi considerati “storici” ed è impegnato oggi con continuità e costanza nella ricerca e messa a punto di politiche e strategie per la conservazione di questo inestimabile patrimonio. Se pure l’architettura e i comfort in quota oggi stanno cambiando il Cai rimane affezionato a un idea più romantica del rifugio, sia per quanto riguarda la sua forma e il linguaggio della sua architettura, sia per quanto riguarda il comfort interno: “preferiamo le coperte piuttosto che i piumini…” tiene a sottolineare Manzotti.

L’immagine di strutture che devono sopravvivere a se stesse esprime bene quale debba essere lo spirito che anima un costruttore di rifugi. Una specializzazione professionale che in realtà non è mai esistita poiché in passato le sezioni affidavano ad amici o soci architetti, geometri ingegneri e avvocati non necessariamente edotti sul tema, la costruzione di quelle che per lo più erano semplici capanne: dapprima realizzate in pietra locale, coperte da un’unica falda di tetto, spesso addossate su un lato alla roccia e provviste di scomodi tavolacci per il riposo degli alpinisti. Queste piccole strutture si sono evolute nel tempo, ingrandite, e talvolta hanno finito, anche con il concorso di famosi architetti, per divenire veri propri alberghetti d’alta quota, provvisti di tutti gli accorgimenti architettonici del caso.

Rimane tuttavia un equivoco, ben esemplificato da quanto promosso nel secolo scorso dalla corrente elvetica heimatschutz, per cui il rifugio è ricondotto agli stilemi di un architettura vernacolare. In Svizzera l’approccio “passatista” si è oggi ampiamente sdoganato lasciando il posto a una continua e assidua sperimentazione che coinvolge con continuità il rinnovamento e l’ampliamento delle vecchie strutture alpine, con concorsi e con la messa a punto di un abaco di soluzioni costruttive e un ampio repertorio iconografico che mostra il superamento pieno di un del mimetismo con gli stilemi dell’architettura tradizionale; lo stesso non sembra avvenire nel bel paese dove spesso si assiste a diatribe e arringhe non sempre motivate in difesa della poetica della casetta in pietra…

Su questo argomento si esprime con convinzione Roberto Dini, architetto e dottore di ricerca in architettura e progettazione edilizia presso il Politecnico di Torino, che si chiede se non sia il caso di intraprendere anche in Italia un passo deciso che vada oltre oltre un male interpretato mimetismo, laddove la cultura urbana ha sdoganato piste da sci e altre innumerevoli aberrazioni sul territorio alpino e risulta sterile polemizzare su piccole strutture in alta quota.

La linea guida più importante per costruire rifugi e bivacchi alpini è seguire il concetto di limite: pochi giorni utili per lavorare e basso impatto sull’ambiente, e semplicità gestionale e manutentiva sono alcuni dei vincoli di cui non è possibile non tener conto. Interessante ad esempio il caso, a tre anni dalla realizzazione da parte del Politecnico di Zurigo della nuova Monterosa Hutte sul versante svizzero del Rosa, delle difficoltà gestionali riscontrate dovendo aver a che fare con una serie complessa di macchinari e di software per la regolazione delle principali funzioni abitative del rifugio: problemi ed emergenze che hanno indotto il CAS a nominare un tecnico specializzato da affiancare al rifugista per la gestione della capanna e gettano qualche ombra sull’importante operazione edilizia originalmente improntata a efficienza e innovazione gestionale.

Uno dei temi linguistici di cui sempre più si tiene conto nella realizzazione e ampliamenti di rifugi alpini è quello dell’apertura verso il paesaggio. Grandi superfici finestrate, rese possibili da profili di serramenti e da vetrate più performanti dal punto di vista energetico, consentono con approcci più o meno attenti alle specificità del luogo una proiezione dall’interno verso il paesaggio alpino; una possibilità che fino agli anni ’90 non era contemplata ma che oggi può rappresentare un fattore attrattivo – o repulsivo se si vuole dar retta alla guida Alberto Paleari che su questo tema ha dichiarato di preferire la penombra di ritorno dall’immersione totale nel paesaggio e nella luce tipica delle ascensioni alpinistiche – per la frequentazione dei rifugi.

Il rifugio Nacamuli (2818m) al Col Collon in val Pelline interamente ricostruito nel 1994 con una struttura in blocchi alleggeriti e legno lamellare
Il rifugio Nacamuli (2818m) al Col Collon in val Pelline interamente ricostruito nel 1994 con una struttura in blocchi alleggeriti e legno lamellare

Uno tra gli architetti oggi si occupano maggiormente di cantieri d’alta quota Enrico Giacopelli racconta le luminose esperienze, che hanno accompagnato la sua carriera professionale. L’esordio con la realizzazione del rifugio Nacamuli al Col Collon in Val Pelline: l’esigenza di chiudere l’involucro durante i primi 50 giorni di campagna lavori per consentirgli di non rovinare durante l’inverno, la scelta di materiali leggeri, i-tong e legno lamellare, per realizzare quello che lui ha definito un “edificio che chiede permesso, non entra a gamba tesa”. In questo primo progetto alpino, giovanile, ci sono tutti gli elementi della poetica di Giacopelli: la ricerca di semplicità, sostenibilità, efficienza e facilità di costruzione e mantenimento, e soprattutto il valore della reversibilità della struttura.

Un approccio che ricompare nelle ulteriori successive realizzazioni che l’architetto sceglie di mostrare al pubblico. Il Dalmazi, nido d’aquila, piccolo ricovero per cercatori di cristalli affacciato sul ghiacciaio del Triolet, collocato alla base dei contrafforti delle Aiguilles Rouges “scoperti” nello scorcio del secolo scorso da famosi scalatori, tra cui Manlio Motto, Michel Piola, Patrick Gabarrou, Gianni Predan: qui il gesto compositivo consiste nella “semplice” estrusione del palallelepipedo logico che scaturisce dalla storia del rifugio. Infine il rifugio Teodulo di cui Giacopelli ripercorre tutta la storia evolutiva, da originale punto di ricovero delle genti Walser di passaggio verso Zermatt a punto tappa tra le piste del Plateau Rosà; la ricollocazione della sala pranzo in vista Cervino e la scelta tecnologica di un rivestimento in rheinzink sono la risposta dell’architetto alla richiesta di aggiornamento di un rifugio che ha evidentemente un ruolo strategico per il Cai di Torino.

Il modulo S3 di Leap Factory, un prefabbricato concepito per “abitare ad impatto zero” i luoghi naturali sensibili e da proteggere
Il modulo S3 di Leap Factory, un prefabbricato concepito per
“abitare ad impatto zero” i luoghi naturali sensibili e da proteggere

Sperimentazione continua su materiali e tecnologie, è l’impegno che Leap Factory – società di progettazione che ha dato alla luce nel 2011 il bivacco Gervasutti sul ghiacciaio di Ghiacciaio di Freboudze sul Monte Bianco – ha assunto come prioritario nella realizzazione di architetture prefabbricate per le alte quote. Una ricerca mirata a quelle tecnologie già esistenti e collaudate in settori specifici della costruzione e che siano traducibili in formazione di moduli componibili da assemblare in quota, ha spiegato Stefano Girodo, confermando l’assunto che lassù non ci si può permettere di sperimentare. Le immagini scorrono: dalla germinazione del Gervasutti in Caucaso, dove il modulo bianco e rosso protagonista in questi anni sulle copertine delle riviste di settore si è ampliato e articolato dando vita al campo base per l’ascensione all’Elbruss, ai moduli S2 e S3 che declinano in nuove soluzioni formali la nuova plug-in city delle vette. L’S3 in particolare riscuote discreto interesse tra il pubblico di architetti in sala, forse interessati più ad applicazioni extra alpine, per le sue caratteristiche di elevata efficienza energetica, in grado di funzionare in autonomia e con una ricerca raffinata di comfort abitativo interno. Questi edifici sono una sorta di roulotte senza ruote, ma più aggraziati e molto più efficienti, e fanno della loro amovibilità e scarso impatto sull’ambiente un punto di qualità offrendo nuove e golose possibilità per l’uomo di insediarsi nei luoghi incontaminati del nostro pianeta (almeno per ora).

A conclusione del convegno l’intervento di Nicola Carlin, che per conto dell’ente di certificazione Arca promuove un’azione di aiuto e di monitoraggio che oggi si rende necessaria per affiancare la progettazione e la realizzazione di edifici in legno con criteri di efficienza e di sostenibilità. Forte dell’esperienza maturata nel lavoro di consulenza per le nuove costruzioni antisismiche all’Aquila l’ente propone una check list aggiornata per la gestione della qualità delle costruzioni, dando priorità a prestazioni tecniche, gestione e sostenibilità, innovazione e filiera.

La ricerca sui cantieri d'alta quota riserva talvolta gustose sorprese...
La ricerca sui cantieri d’alta quota riserva talvolta gustose sorprese…

Bilancio di un pomeriggio di studio positivo, innanzi tutto per l’apprezzamento degli architetti in sala, e non solo per aver acquisito quattro bei crediti formativi per la professione. Alcuni di loro sono già “paladini” dell’architettura alpina: chi è stato tra i primi a dare alla stampa testi organici sull’architettura di montagna come l’architetto Luciano Bolzoni (Abitare molto in alto, Architettura Moderna nelle Alpi Italiane vol. 2 – Priuli e Verlucca), chi come Stefan Davidovici con CLIMBnet Architects si esercita costantemente nella progettazione e rappresentazione di architetture alpine, chi come Silvia Calvi e Marco Bolzoni fanno parte della commissione rifugi del Cai di Milano e si occupano costantemente e sul campo di questa complessa problematica.

Al termine della giornata un inaspettato momento gastronomico è dedicato alla promozione e vendita del “Bivacake”, appena sfornato da un rinomato panificio torinese e confezionato in un originale confezione in stile Apollonio. Una golosità da cui non ci si può sottrarre, come dimostra l’immagine in main page, dedicata alla simpatica stretta di mano tra Samuele Manzotti e Luca Gibello, promotore e animatore di questa interessante iniziativa.

LS

Un pensiero riguardo “Passato e presente dell’architettura di rifugi e bivacchi

  • 25/11/2014 in 14:45
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    A volte mi chiedo se in realtà questa nuova mania architettonica di “ammodernizzare” i rifugi non sia solo una vetrina per l’ego dei nostri (a volte) bravi architetti… Insomma, lavori spesso molto costosi (l’uso dell’elicottero per trasportare i materiali in quota… scusate, chi paga?) a fronte di un raro utilizzo dei rifugi in questione. All’ormai famoso Gervasutti, quante persone all’anno ci vanno? 10? 20? 30? (non mi lascio ingannare dalle foto sul bel sito della Sezione CAI) … Davvero valeva la pena fare dei lavori di quel genere quando ci sono rifugi ben più frequentati che avrebbero quelli sì bisogno di una rinfrescata? magari i moduli andavano bene all’Elbrus, giusto per passare dai camion e dalle baracche a qualcosa di più confortevole, che comunque è un campo base rifornito via elicottero e molto frequentato… ma un bivacco a 2.835 e nemmeno in un posto (visto il cambiamento della morfologia/innevamento) nemmeno facilissimo da raggiungere.. Bah… Alla fine, una bella vetrine per gli architetti, da mettere nel curriculum… 🙁

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