Le più belle foto di Bonatti in mostra
Fino all’8 marzo 2014 il Palazzo della Ragione di Milano, in piazza Mercanti, ospita la mostra “Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi”. Le immagini testimoniano oltre trent’anni di viaggi alla scoperta dei luoghi meno conosciuti della Terra con l’ausilio di video e documenti inediti. Bonatti, grande alpinista, si rivela un fotografo che sa rendere come pochi che cosa significhi percorrere e abitare i grandi spazi, offrendo scorci di luoghi incredibili: dai deserti della Namibia ai ghiacci dell’Antartide. Qui pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore Priuli&Verlucca, un capitolo della biografia “Walter Bonatti. L’uomo, il mito” di Roberto Serafin dedicato all’attività di Bonatti inviato speciale “in terre lontane” del settimanale Epoca.
In terre lontane
Grandi fiumi, praterie, montagne, ambienti selvaggi dove l’uomo per sopravvivere deve imparare a conoscere, e a voler bene, al mondo della natura. Questi erano i panorami sognati dal ragazzo Walter Bonatti, appassionato lettore sin da piccolo dei romanzi d’avventura e particolare ammiratore di scrittori come Conan Doyle, Daniel Defoe, Jack London, Robert Luis Stevenson, Joseph Conrad, Hermann Melville, magistrali raccontatori di terre lontane e sconosciute. A tal punto ne era affascinato, come lui stesso raccontava sempre, da considerarli “i suoi vangeli”. Anche perché, per sua ammissione, fin da allora gli era molto più facile trattare con la natura che con gli uomini.
Da bambino passava molto tempo sulle rive del Po, ospite degli zii durante le vacanze scolastiche, ed era letteralmente affascinato dalla corrente, amava attraversare a nuoto le acque spesso tumultuose sfidando i compagni di gioco, si arrampicava sugli alberi più alti per riuscire a vedere le cime innevate delle Alpi nelle limpide giornate autunnali, sognava di compiere imprese avventurose lungo fiumi più grandi, pianure e deserti più vasti delle secche del Po, montagne più alte delle Alpi. E quando nel 1965 decide di rinunciare alle grandi scalate, lui, il più forte alpinista del momento, e inizia a viaggiare come fotoreporter nelle «terre lontane» su invito del direttore di Epoca Nando Sampietro, chi lo conosce bene non si meraviglia affatto.
Sampietro lo sceglie ritenendolo il personaggio più adatto per portare una ventata di nuove idee, e di nuovi lettori, alla rivista della Mondadori, ricreando un genere di giornalismo estremo alla Stanley, l’inviato americano che nell’Ottocento percorse l’Africa nera alla ricerca di Livingstone, riuscendo anche a trovarlo. E il successo e l’interesse che Epoca suscita pubblicando quei reportage, che continueranno a uscire a puntate fino al 1979, gli danno ragione. Dal 1960 al 1970 Epoca tira in media 500.000 copie, con punte di 700.000 che spesso coincidono con quei servizi appassionanti intitolati Le grandi avventure di Bonatti, che hanno successo anche all’estero dove vengono ripresi da riviste importanti come Life.

Quando decide di cambiare vita e di passare dall’alpinismo estremo al giornalismo estremo, Bonatti ha appena scalato la direttissima della parete nord del Cervino, da solo nel febbraio 1965. Un capolavoro di stile e una data storica per l’alpinismo. Tanto da spingerlo a dichiarare: “Dopo il Cervino, io non posso trovare un’altra montagna che mi offra una storia più bella, è per questo che l’ho scelta come atto finale della mia carriera”.
Decide di buttarsi a capofitto nella nuova avventura perché, sostiene, l’avventura è già parte di lui e viaggiare nei luoghi più selvaggi della terra, ora che è adulto e forte, gli serve per realizzare i suoi sogni da bambino, per soddisfare la sua curiosità. Forse è anche un po’ stufo di rischiare la vita in quel modo, e con il mondo degli alpinisti ha un rapporto abbastanza conflittuale, soprattutto nei dintorni di Courmayeur dove si sente vittima di incomprensioni e meschinità. Coglie dunque al volo l’occasione che gli viene offerta per cambiare aria.
Il primo viaggio di prova, una sorta di esame di inviato speciale, l’aveva già compiuto nell’inverno del 1963. La meta era stata scelta da Sampietro e dai big della Mondadori, non a caso in Yakuzia, nell’estrema Siberia nordorientale, nel punto più freddo del mondo abitato. Esame ovviamente superato alla grande. Eppure ci mette quasi due anni Bonatti per decidere di lasciare l’alpinismo estremo. È solo dopo il Cervino che, nel 1965, entra a far parte della squadra di fotografi professionisti di Epoca e apprende velocemente tutti i segreti del mestiere. Anche se la macchina fotografica, una modesta Condoretta da quattro soldi, aveva cominciato a usarla sui vent’anni quando scalava le montagne, spinto dalla meraviglia che il paesaggio gli ispirava, e nel 1961 Epoca aveva già pubblicato alcune sue foto accanto al racconto di una sua scalata in Perù, in un articolo intitolato Il fotografo si chiama Bonatti.
Lui si definisce, in quei primi giorni di lavoro per Epoca, un apprendista, ma sa bene di essere un apprendista alquanto speciale. Perché la direzione gli dà subito carta bianca per progettare e organizzare ogni anno, in piena autonomia, un lungo viaggio stando in giro da tre a sei mesi. Può andare dove vuole e quando vuole, e al ritorno è lui stesso a curare in ogni passaggio redazione e impaginazione, assieme ai grafici e all’art director, accompagnando le foto con testi brevi e incisivi completati da didascalie evocative. I servizi escono a puntate, spesso con apertura in copertina, e vanno a ruba. Raccontano i luoghi selvaggi della Terra, per lo più sconosciuti in quegli anni, o conosciuti solo attraverso le pagine dei romanzi d’avventura. E molti sono i lettori che se li ritagliano per conservarli gelosamente.
Bonatti non è dunque semplicemente un inviato della rivista della Mondadori. Ogni viaggio lo progetta sulla base della sua personale curiosità, mettendo a frutto immaginazione, ricordi e sogni infantili. Può liberamente dare sfogo a quel desiderio di avventura che non lo ha mai abbandonato da quando, bambino, si faceva portare con la fantasia dalla corrente del Po fino all’Adriatico e poi ancora e ancora fino ad arrivare a misteriosi mari lontani. Un desiderio di avventura che lo accomuna a Ismaele, il protagonista di Moby Dick, così mirabilmente descritto da Hermann Melville in apertura del suo romanzo: “Essenziale tra questi motivi (…che spingono Ismaele a partire per un viaggio su una baleniera, NdR) era la travolgente idea della grande balena in carne e ossa. Un mostro tanto portentoso e misterioso sollevava tutta la mia curiosità. Poi, i mari selvaggi e remoti dov’egli voltolava la sua massa simile a un’isola, i pericoli, indescrivibili e senza nome, della caccia: tutte queste cose, con tutte le concomitanti meraviglie di un migliaio di parvenze e di suoni patagonici, s’aggiungevano a spingermi al mio desiderio. Ad altri uomini forse tutto questo non sarebbe stato di incitamento, ma, quanto a me, io sono tormentato da una smania sempiterna per le cose lontane, mi piace navigare mari proibiti e approdare su coste barbariche”.
Certo, c’è avventura e avventura. Moby Dick è il simbolo del mostro vendicatore, del rischio estremo, dell’ultima avventura, proprio come può esserlo la parete nord di una montagna in inverno, mentre Bonatti ha sempre sostenuto che il suo interesse per i viaggi in terre lontane, la sua voglia di “navigare mari proibiti e approdare su coste barbariche”, era dettato dal desiderio di conoscere le forti manifestazioni della natura per imparare a vivere meglio. E la sua grande capacità non solo di vivere situazioni estreme, ma anche di raccontare magistralmente con parole e immagini l’esplorazione e l’avventura nelle zone più impervie del mondo, gli fanno vincere con i suoi reportage giornalistici e fotografici il premio “Die Goldene Blende”, per iniziativa della rivista Bild der Zeit di Stoccarda, e nel 1971 l’assegnazione del trofeo “Il gigante dell’avventura”, per iniziativa della rivista Argosy di New York.

La meta del suo primo viaggio per Epoca è il Klondike, nel nord ovest del Canada sulla via dei cercatori d’oro, proprio nei luoghi dove alla fine del XIX secolo, all’età di 21 anni si era recato Jack London, uno dei mitici scrittori amati da Bonatti adolescente, il coraggioso, battagliero, esasperato polemista sociale, autore di Zanna bianca e L’urlo della foresta, grande raccontatore dell’anima segreta della natura. Un caso? Probabilmente no. Di oro ne aveva trovato poco il giovane London, ma in compenso aveva scoperto di essere un bravo raccontatore di storie e una volta tornato a casa aveva deciso di fare lo scrittore. E su quella personale esperienza di cercatore d’oro nel grande fiume Klondike, durata circa un anno di fatica e di sofferenza essendosi anche ammalato di scorbuto per la mancanza di vitamine, aveva poi scritto il suo racconto breve più famoso, To build a Fire, basato sull’incontro-scontro tra l’uomo e la natura selvaggia e considerato il primo esempio al mondo di narrazione naturalista. Di quel racconto Bonatti ricorda in particolare la descrizione del momento in cui, in primavera, nel grande fiume i ghiacci di oltre un metro di spessore si spaccano con fragore e letteralmente esplodono sotto gli occhi del protagonista, che sta viaggiando da solo con un cane da slitta in quell’ambiente assolutamente ostile. E pensa che non è possibile, che c’è della fantasia in quell’esplosione che consente alle acque di defluire di nuovo dopo l’inverno. Solo quando assiste personalmente al fenomeno, «il cataclisma, l’apocalisse»46 sullo Yukon, di fronte a Dawson City, Bonatti si rende conto che London non ha inventato niente.
Ogni volta, dopo aver scelto meta e itinerario, Bonatti li propone alla direzione del giornale che invariabilmente gli dà il via libera. Non parte mai dall’Italia con collaboratori al seguito, ma talvolta gli capita di aver bisogno dell’aiuto di persone del posto. Nel Klondike è l’indiano Joe ad accompagnarlo al Chilkoot Pass lungo la pista percorsa tra il 1897 e il 1899 dai disperati dell’oro. Naturalmente in inverno, tra le bufere e con un freddo pungente, quando attraversare il passo è “impresa da pazzi”, come dicono da quelle parti. Tanto che alla fine della traversata, quando si presentano stravolti all’entrata della sala d’aspetto della stazioncina ferroviaria di Bennet, sembrano proprio usciti da un romanzo di London e Joe dichiara di non aver mai sofferto tanto in vita sua.
Nello Yukon Walter si porta sempre dietro un fucile perché sarebbe impensabile girare disarmato tra orsi grizzly, lupi e alci, ma quando si trova per la prima volta da solo a tu per tu con un grande orso che lo fissa immobile dall’altra parte del fiume, invece di scappare o di sparargli l’istinto gli suggerisce di restare immobile. Solo 30 metri lo separano dall’animale selvaggio, eppure si accorge di avere stranamente dentro di se una grande calma. Si guardano a lungo, l’uomo e l’animale, finché l’orso riprende tranquillamente la sua attività come se niente fosse. Non hanno paura l’uno dell’altro. Bonatti rimane molto colpito da questo episodio e decide di dedicare del tempo a questo, per lui del tutto nuovo, aspetto dell’esplorazione, affascinato dall’idea di poter condividere la wilderness con il mondo animale senza entrare in conflitto.
Forte di questa esperienza, e ormai certo che basta non aver paura degli animali selvatici per non essere attaccati, nel secondo viaggio nell’Africa del Nilo e delle savane rinuncia a portarsi dietro il fucile. Vive un mese sul Nilo presso le cascate Murchison tra coccodrilli lunghi 7 metri e giganteschi ippopotami, tuffandosi spesso sotto le cascate e nuotando lì intorno per abituare gli animali alla sua presenza. E funziona. Tanto che dopo un po’ può percorrere a nuoto un lungo tratto di fiume senza che i coccodrilli facciano una piega. Cammina poi in solitudine per quattro giorni nella savana del Grumeti tra leoni, leopardi, elefanti, iene e bufali e scopre che verso mezzogiorno, quando il caldo diventa soffocante e tutti gli animali si immobilizzano per sopportarlo meglio, l’unico modo per non apparire un corpo estraneo, e non farsi assalire, è imitarli standosene assolutamente fermo. Ha la conferma che se l’animale non si sente minacciato, non ha paura e perciò non attacca. Certo, il trucco l’ha appena imparato vivendo un po’ di tempo con i masai sugli altopiani di Murja, sperimentando insieme a loro che quando si incontrano animali pericolosi bisogna subito posare per terra lance e bastoni e accucciarsi restandosene fermi e silenziosi, finché prima o poi gli animali se ne vanno tranquillamente. L’ha imparato così bene che due anni dopo decide di addentrarsi nella foresta di Sumatra in Indonesia in cerca della tigre, accompagnato da due aiutanti autoctoni, e ci resta ben quaranta giorni. La tigre la trova, la studia, impara a conoscere le sue abitudini e verifica che lo splendido animale, avvertendo che quegli uomini non si trovano lì per dargli la caccia, li ignora e fa come se non ci fossero.
Quattro anni dopo aver realizzato il sogno di percorrere il Klondike sulle tracce di Jack London, Bonatti programma un altro viaggio suggerito dalle pagine di un libro molto amato: Typee, il primo romanzo di Hermann Melville, in parte autobiografico. Racconta infatti un’esperienza vissuta in prima persona dallo scrittore che nel 1841 si era imbarcato sulla baleniera Acushnet diretta verso l’oceano Pacifico, ma una volta approdato a Naku Hiva, un’isola dl gruppo delle Marchesi, aveva disertato insieme con il compagno Toby per sfuggire alla vita di bordo, diventata per loro insopportabile. Sono vere o di fantasia le vicende drammatiche raccontate nel romanzo? Alcuni critici letterari le considerano molto fantasiose, ma Bonatti pensa che siano vere. Desidera che siano vere. Ed è questo desiderio che lo porta a sbarcare nell’isola la sera del 28 settembre 1969 dalla Cambodja, un vecchio piroscafo al suo ultimo viaggio. Per venti giorni cerca di ritrovare uno per uno gli itinerari percorsi dai due giovani marinai secondo la descrizione fatta da Melville nel romanzo. Non riesce a raccapezzarsi, vaga su e giù per valloni ricoperti di una fitta vegetazione, picchi e corsi d’acqua, comincia a pensare che sia tutto inventato e ci resta malissimo. Ma ad un tratto gli compaiono davanti come d’incanto tre straordinari salti d’acqua. Sono alti almeno 200 metri e sono proprio “le silenti cascate” incontrate dai due fuggitivi. Con rinnovato entusiasmo Walter ripercorre la difficile via da loro seguita 130 anni prima e si lascia scivolare perigliosamente lungo un burrone fino ad arrivare in fondo alla valle a quel tempo abitata dai typee, che significa cannibali. La sua curiosità è soddisfatta. Adesso ha la prova che Melville non si è inventato niente, raccontando in modo magistrale un’avventura mirabolante vissuta in prima persona.
Un anno dopo, Walter parte per rivivere un altro romanzo della sua adolescenza, la storia raccontata da Daniel Defoe, l’inventore di Robinson Crosué e delle sue straordinarie avventure. Al contrario di Typee, questa è una storia assolutamente di fantasia, anche se trae ispirazione dalla storia vera del marinaio scozzese Alexander Selkirk che nel 1704 fu abbandonato come punizione sull’isola deserta Mas a Tierra nell’arcipelago Juan Fernandez, nell’oceano Pacifico a circa 700 chilometri dalle coste cilene, dove rimase completamente da solo per quattro anni. È con una grande emozione che ritrova la grotta dove Selkirk ha vissuto per viverci cinque giorni e cinque notti in solitudine. E sale al colle, oggi chiamato Mirador di Selkirk, dove il marinaio è faticosamente riuscito ad arrivare e dove ha accumulato un mucchio di legna per poter accendere un fuoco come segnale per una eventuale nave di passaggio. Rivive le pagine del romanzo e i sogni di quand’era ragazzo, si diverte a dormire nella grotta, a pescare e a cuocere il pesce sulla brace, a girellare nei dintorni. Realizza finalmente il sogno di immedesimarsi in Robinson Crusoe.

Dopo quattordici anni di viaggi avventurosi in mondi quasi preistorici, in pezzi di continenti intatti, in Africa, Australia, Sudamerica, Asia, Antartide, dove fa un grande freddo o un tremendo caldo, nel 1979 arriva alla direzione di Epoca Andreina Vanni che invita Bonatti a cambiare registro. I suoi viaggi e suoi reportage non vanno più bene per il giornale. E Walter se ne va. Il suo lavoro come inviato fotoreporter per Epoca finisce qui. Ma non finisce la sua voglia di viaggiare spinto sempre dalla curiosità.
Fino all’ultimo Bonatti è un viaggiatore instancabile. Molte immagini dei suoi viaggi confluiscono nella bellissima mostra che il Museo Nazionale della Montagna «Duca degli Abruzzi» gli dedica nel 1998, pubblicando un documentato cahier a cura del direttore Aldo Audisio. Nelle sale del museo si concretizza infatti un progetto sulla sua attività, vista attraverso le foto scattate in giro per il mondo. Il titolo è conciso, evocativo di una vita avventurosa: «Fermare le emozioni». La mostra è un successo.
L’amicizia con il direttore Audisio si consolida e insieme viaggiano molto. Grazie alla collaborazione di Walter con il museo l’esposizione viene allestita dal Canada alla Spagna, alla Svizzera e in diverse sedi italiane. Lo attende, di lì a poco, un’altra «scalata» al Monte dei Cappuccini, sede del museo, sulle tracce di un piemontese, l’esploratore missionario salesiano De Agostini. Ne nasce la mostra, “Solitudini australi”, un viaggio alle origini di un sogno. “Ero un ragazzo – scrive Bonatti nel catalogo – quando venni attratto dalla copertina di un libro in una libreria; si intitolava Ande Patagoniche e l’autore era Alberto Maria De Agostini. Devo a questo grande uomo i sogni e le riflessioni che i suoi scritti e le sue immagini hanno saputo far nascere in me”. Per la realizzazione del film Finis Terrae, prodotto per l’occasione dal Museomontagna, con Rai e Televisione Svizzera e diretto da Fulvio Mariani, Walter viaggia a lungo in Patagonia e in Terra del Fuoco e il documentario è un successo anche in Argentina e Cile grazie alla sua notorietà. Continua poi a frequentare il museo, a far partecipe Audisio dei suoi entusiasmi. Le sue «scalate» torinesi diventano un’abitudine. Come nel 1999, quando un memorabile incontro con Edmund Hillary al Monte dei Cappuccini mette di fronte due miti dell’alpinismo. O quando nel 2005, gradita sorpresa, arriva all’inaugurazione del museo rinnovato.
Da “Bonatti. L’uomo, il mito” di Roberto Serafin (Priuli&Verlucca editore, 2012, per gentile concessione)
Per informazioni sulla mostra, orari e biglietti: http://palazzodellaragionefotografia.it