Un alpinismo onesto e pulito: realtà o illusione?
Esiste il doping nell’alpinismo e negli sport di montagna? Bella domanda. Certo che esiste, e da quel dì. Ora questa domanda torna a porsela il convegno Clean and Honest Mountaineering – Reality or Illusion?, in programma a Bressanone (BZ) sabato 18 ottobre 2014 nell’ambito dell’International Mountain Summit 2014. Sicuramente si tratta di un approfondimento quanto mai opportuno su un problema molto sentito.
Chi bazzica un po’ la storia dell’alpinismo avrà sentito parlare della pervitina, un “aiutino” con cui negli anni Sessanta l’intrepido austriaco Hermann Bull, quello della solitaria al Nanga Parbat, affrontava gli ottomila. Insomma, l’argomento doping non può essere sottaciuto quando si parla di alpinismo e di sport di montagna e se ne ricostruisce la storia.

“La società di oggi è sempre più incentrata sul raggiungimento del risultato nel minor tempo possibile e sulla voglia di apparire, di conseguenza la montagna, e soprattutto le alte cime, sono considerate un grande campo di gioco in cui affermarsi. Senza contare che spesso scalare una vetta importante porta vantaggi economici”, dice giustamente in un comunicato il dottor Luigi Festi, presidente della benemerita Commissione centrale medica del Cai.
“Se per salire una cima”, aggiunge il dottor Festi, “abbiamo forzato il nostro organismo, assumendo farmaci fuori da trattamenti e cure sotto controllo medico, la domanda a cui bisogna rispondere è se abbiamo barato o meno e, in caso affermativo, nei confronti di chi. Sono tutti temi di cui si è finora parlato pochissimo”.
Al momento opportuno, in realtà, di questo tema si è parlato parecchio. Forse non abbastanza. E forse il dottor Festi, con tutto il rispetto, si era distratto quando nel 2008 scoppiò lo scandalo della Patrouille des Glaciers, uno dei maggiori appuntamenti dello sci alpinismo agonistico. Per la prima volta nella storia delle gare in montagna, un atleta risultò infatti positivo al controllo antidoping.
L’atleta Eric Blanc, di nazionalità francese, mostrò infatti tracce di eritropoietina (Epo), l’ormone che stimola la produzione dei globuli rossi. Si tratta di un tipo di doping del sangue, reso tristemente famoso da noti casi del ciclismo, che può provocare ipertensione arteriosa, danni cerebrali e trombosi venose agli atleti.
Molto si scrisse sul caso Blanc, pubblicazioni ufficiali del Cai comprese. Qualcuno ingenuamente pensava fino a quel punto che (almeno) lo sci alpinismo fosse immune da questo problema. Ma perché in montagna dovrebbe essere diverso? Quando ci sono di mezzo primati, vittorie, premi, record, onori e sponsor, tutti gli atleti ”professionisti” sono uguali. Alpinisti e sci alpinisti compresi.
Un caso eclatante di doping ‘professionistico’ nello sci di fondo è stato quello della campionessa russa Egorova, squalificata per due anni nel 1997 dopo l’oro conquistato ai mondiali di Trondheim per aver assunto un anabolizzante, il Bromantran, e poi regolarmente rientrata alle competizioni. Ma anche durante le Olimpiadi invernali di Torino nel 2006 furono sequestrate sacche di sangue per autotrasfusione in atleti del biathlon.
Certo non è facile affrontare il problema del ‘doping’ in montagna, tanto meno è agevole dare delle risposte sicure, anche perché è un ambiente in cui le attività fisiche-sportive sono molto varie e spaziano dall’anziano escursionista che passeggia per diletto, all’atleta professionista che gareggia per una vittoria, all’alpinista che insegue un record.
E’ perciò utile definire bene che cosa si intenda per “doping” e “comportamento “simil-doping”.

E’ considerato “doping”, in un’attività sportiva, l’utilizzo di sostanze o procedure vietate dalla WADA (World Anti-Doping Association), dalle Federazioni sportive o dai regolamenti nazionali. E, a quanto risulta, viene considerato comportamento “simil-doping” l’uso di sostanze per superare una difficoltà reale e percepita come tale (gesto sportivo, esame, rapporto con il pubblico, situazioni di disagio sociale, guerra).
Esiste anche una “mentalità del doping” sempre più diffusa e contagiosa tra gli amatori e assai difficile da sradicare.
Uno studio condotto nel 1986 su trekker che attraversavano in Nepal il Thorong Pass, a 5400 metri di altitudine, rivelò che su 353 soggetti analizzati meno del 2% aveva fatto uso di acetazolamide e il 17% di analgesici. Nella medesima situazione, nel 1998, a distanza di 12 anni, su 266 soggetti si constatò invece che il 12% faceva uso dell’acetazolamide e il 46% assumeva analgesici. Questi dati dimostrano come sia cambiata (in peggio) la mentalità dell’alpinista e del trekker nel corso di un decennio.
Alcuni dubbi possono poi nascere sull’uso preventivo dei farmaci per evitare il mal di montagna. Anche l’UIAA ammette l’uso di questi farmaci, riservandoli però alle persone che si devono recare in alta quota senza possibilità di eseguire una corretta acclimatazione (operazioni di soccorso, viaggi di lavoro o per turismo quando si arrivi in aereo in località quali La Paz in Bolivia o Lhasa in Tibet).
Esistono infine situazioni al limite tra la prevenzione del male e il miglioramento della prestazione. Per esempio, l’uso dell’ossigeno in altissima quota. George Herbert Leigh Mallory (1886 – 1924) è stato un alpinista inglese che ha fatto parte delle prime tre spedizioni inglesi che tentarono di raggiungere cima del monte Everest. Mallory è deceduto assieme al giovane compagno di scalata Andrew Irvine durante la spedizione del 1924. Egli era contrario all’uso dell’ossigeno in alta quota, sostenendo che questo rappresentava una sfida allo spirito umano e un attacco alla scienza.
Una esagerazione? Secondo Kurt Kammerlander ”l’ossigeno in alta quota è doping”. Secondo Reinhold Messner “l’ossigeno non è doping, ma aiuta molto: salire senza, è molto più faticoso”.
Ser
Scarica qui il programma dell’International Mountain Summit con il convegno sul doping