Il “caso” Honnold. L’uomo-lucertola nella fossa dei leoni

Da principio c’era l’uomo-rupe, il granitico scalatore Riccardo Cassin, così definito da Fosco Maraini nella prefazione di “Capocordata” recentemente ripubblicato da Priuli&Verlucca. Oggi per una plausibile evoluzione della specie si parla parecchio invece dell’uomo-lucertola, quell’Alex Honnold che in You Tube striscia come un rettile senza sicurezze su pareti verticali e sembra sempre sul punto di precipitare e sfracellarsi.

Osservando con il cuore in gola su YouTube il suo progredire sul gigantesco “Luminance boulder” in California, con i dettagli di quelle sue dita che trovano sostegno in impercettibili concavità della roccia, si sospetta perfino che, come nelle comiche di Max Linder, il nostro uomo-lucertola si muova in realtà su una superficie orizzontale e che poi nella finzione, con un banale espediente, la parete diventi verticale.

E invece niente trucchi. E’ il primo a rendersi conto, il giovane Honnold, che così rischia fortemente la vita, ma questo gioco continua ad appassionarlo e soprattutto ad appassionare i suoi sponsor. Forse non ha mai sentito parlare dell’abate Henry (1870-1948) che era consapevole di avere contratto il “morbo dell’alpinismo” e in quanto contagiato invitava a ricordarsi che in montagna “si vive una sola vita finita la quale, in questo mondo, non ve n’ha più”.

Di Honnold come fenomeno mediatico raccontò il 20 luglio l’accademico torinese Pietro Crivellaro nel supplemento domenicale del Sole 24 Ore e MountCity fu lesto a rilanciare alcuni brani del suo tormentato reportage in differita dal festival di Trento. Un fenomeno o un caso clinico?, si chiese Crivellaro analizzando i comportamenti derivanti da questo protagonismo competitivo, da questa ennesima commercializzazione dell’avventura verticale.

Dubbi legittimi. Ognuno è libero di rischiare quanto vuole la pelle, ma è giusto e doveroso criticarlo se trasforma questa sua prodigiosa abilità in uno spettacolo da baraccone. “Yosemithe Death Climb” ha battezzato Honnold una sua recente sfida mortale a Yosemithe, ripromettendosi di scalare in solitaria e senza corda tre grandi pareti per un totale di 7000 piedi, come annuncia il sito del National Geographic. Una sfida mortale, per usare le sue parole.

Con tutto il rispetto, mi sembra di tornare ai tempi del luna park sui bastioni di Porta Genova dove una certa Anita, bionda e inguainata in una funerea tuta di pelle, sfidava in moto il “muro della morte” ammorbandoci con i gas di scarico.

Il giovane Alex asseconda questo suo apparire un fenomeno da luna park girando l’America con il suo furgone per arrampicare in free solo come se fosse una necessità naturale. Ma non è piuttosto un vistoso caso clinico che deve suscitarci più dubbi che ammirazione? Questo di chiede Crivellaro, pur consapevole di avere rischiato più volte la pelle come alpinista, e tanto è bastato per suscitare i malumori degli amici accademici finendo triturato nella “fossa dei leoni” del blog di Alessandro Gogna dove Honnold viene evidentemente considerato intoccabile.

Non so quanti se ne siano accorti, ma lo scrittore alpinista torinese si pone la stessa domanda che fece Dino Buzzati sulla Domenica del Corriere nel 1961. Commentando la tragedia del Pilone Centrale affermò fin dal titolo che “è stata una follia”. Successivamente nell’articolo, con una capriola e un certo spirito farisaico, Buzzati spiegò che la follia non sempre è un male, si pensi alla follia di un certo Ulisse grazie alla quale l’eroe osò spingersi oltre le Colonne d’Ercole…

Pietro Crivellaro (ph. R. Serafin)
Pietro Crivellaro (ph. R. Serafin)

Oggi mi stupisce, nel leggere le vibranti polemiche seguite all’articolo sul quotidiano della Confindustria, che la posizione di Crivellaro venga definita bigotta e che il suo argomentare gli frutti da parte degli internauti chiamati a discutere l’ingeneroso epiteto di “sfigato”: il che confermerebbe, secondo Michele Serra (La Repubblica, 7 settembre 2014) come nel web si sviluppi “una enorme e contagiosa amplificazione della rozzezza e della violenza verbale, nel quadro di una incalcolabile facilità/velocità di diffusione di parole e pensieri di qualunque calibro, compreso quello infimo”.

E poi, da che parte sta il bigottismo? Pensavo che questa qualifica si adattasse in genere agli alpinisti dei quali ho sperimentato in vari casi l’alto tasso di permalosità nei confronti degli infedeli. E non basta. Il giudizio di Crivellaro viene paragonato a quello della brava massaia. Chiamare in causa l’ignara massaia ovvero l’innocente casalinga di Vigevano non è forse un metodo diffuso per declassare gli infedeli?

Evitare la saccenteria dovrebbe in realtà essere fondamentale per un comunicatore, così come evitare di accanirsi come lupi in branco contro chi non la pensa come noi. Nel decalogo del buon mediatore culturale (e questo anche dovrebbe essere un blog aperto a tutti i commenti) formulato da Filippo La Porta domenica 7 settembre sul Sole 24 Ore leggo che è bene “dare spazio soprattutto alle idee eccentriche, benché minoritarie, poiché il dispotismo della democrazia non consiste tanto nel reprimere chi la pensa diversamente, quanto nel presentarlo come anomalo, straniero…”.

E infine mi chiedo. Quanti di quelli che fanno dell’ironia sull’articolo di Crivellaro e sul giornale economico che abitualmente ne ospita la firma (che personalmente considero prestigiosa), hanno mai letto le pagine domenicali del Sole 24 Ore? Quanti si sono personalmente resi conto, recandosi all’edicola, di quanto questo supplemento rappresenti un prezioso baluardo culturale mentre la rete con i suoi twitter, selfie e like sempre più soffre di vistose malattie esantematiche?

Ser

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